domenica 28 dicembre 2014

Il pranzo di Natale

Ora che siete satolli delle libagioni natalizie, lancio una sfida: questo è un blog di cultura e il cibo è cultura perché ci parla del territorio, delle sue risorse, delle sue tradizioni. L’Italia è un Paese molto piccolo, ma estremamente ricco di paesaggi, climi, tradizioni. Per non parlare del resto del mondo, che è un territorio sconfinato.
Sono italiana, emiliana, di Bologna, e so che la tradizione del pranzo natalizio è abbastanza diversa addirittura da famiglia a famiglia, figuriamoci se ci espandiamo…
La sfida, quindi, è quella di raccogliere le tradizioni della città, della città allargata alle campagne; e poi all’Italia, all’Europa, al resto del mondo.
Tanto per cominciare, c’è chi fa il cenone del 24 e chi il pranzo del 25 (se li fate tutti e due fate parte di una famiglia bulimica), ma non formalizziamoci.
Cominciamo dal minimo, cioè dal mio pranzo di Natale tradizionale:
1)      gli antipasti sono due: crostini di pane al latte (tipo pane da toast ma al latte: a Bologna si trovano solo in uno dei più antichi panifici bolognesi, nel Quadrilatero): i crostini si friggono nel burro; quando sono freddi, si spalmano di burro misto ad acciughe dissalate; l’altro antipasto è costituito dalla galantina, composto a base di carne di pollo, accompagnata da maionese;
2)      il piatto forte, ovviamente, sono i tortellini (non chiedetemi la ricetta perché gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma cambiano le proporzioni e la qualità: questo fa la differenza.) I tortellini vanno cotti rigorosamente in brodo: riempite a 3/4 una pentola molto capiente con acqua fredda, cui aggiungerete una costa di sedano, una cipolla, una carota, un piccolo pomodoro, un ciuffo di prezzemolo e una crosta di parmigiano reggiano. Poi aggiungerete carni di bue: ossobuco, lingua, girello, doppione; a seconda della quantità di brodo desiderata, un quarto o un mezzo di gallina.
3)      il secondo è composto dal carrè di bollito (cioè la carne che avete usato per fare il brodo) e cotechino e/o zampone;
4)      il cotechino e lo zampone sono accompagnati da purè di patate; il misto di bollito, invece, da salse varie:  a) conserva tripla di pomodoro (di una famosa marca parmigiana); b) salsa verde, costituita da un pesto di prezzemolo, aglio, capperi, acciughe sott’olio e uova sode triturate; c) mostarda di Cremona (misto di frutta conservata nella senape); d) friggione (salsa tipica di Bologna costituita da cipolle soffritte in olio a cui va aggiunto abbondante pomodoro a pezzi; il tutto va fatto bollire almeno per mezz’ora)
5)      Il dolce, se siete ancora vivi, è il certosino o il panone e, se volete la ricetta, leggete qui: http://www.bolognawelcome.com/ristoranti/tradizione-culinaria/params/Luoghi_992/ref/Certosino%20di%20Bologna

Ecco, adesso, se volete, in qualsiasi parte del mondo siate, mandate le vostre ricette a danila.faenza@gmail.com: saranno pubblicate col vostro nome o, se preferite, anonimamente (specificatelo). Aggiungete : nazionalità, Paese e Stato  (se siete stranieri), luogo di residenza; luogo di origine della famiglia. Ovviamente sono graditi aneddoti riguardanti le tradizioni locali per il pranzo di Natale.

Grazie in anticipo.
@ Danila Faenza 

venerdì 26 dicembre 2014

Piccoli capolavori in note: Il rimedio la vita e la cura

Per molti, il brano rimanda ad un altro capolavoro, La cura di Battiato. Il tema, infatti, è lo stesso, ma è lo svolgimento che è diverso, sia dal punto di vista musicale che da quello del testo. Il concetto è, se vogliamo, banale: l’amore come salvezza, riparo, rinascita; è un’ideale fin troppo condiviso e, nella realtà, spesso deleterio. Ma nell’arte ha tutta la sua ragion d’essere ed ha ragione Chiara ad affermare che si è particolarmente emozionata a sentire questo brano, perché è davvero bello, intenso, per niente banale: perché quando l’amore tanto desiderato arriva, guarda caso, entriamo nel panico; perché la felicità – o la paura di essa- ci colgono impreparati, quasi allo stesso modo in cui ci coglie impotenti la delusione. L'amore arriva in un momento in cui siamo distratti perché, se ci fissiamo sul trovarlo, lo vedremo ovunque ma non sarà da nessuna parte. Ci coglie impreparati, come sempre accade per i fatti importanti della vita. E anche chi ci ispira sentimenti forti, spesso, è inconsapevole del proprio ruolo, ma non importa.L’importante è un abbraccio, un porto in cui trovare riparo. Magari tremando di paura, ma fermandosi lì perché, almeno per il momento, quello è il rimedio, la vita, la cura.

Il video, diretto da Marco Salom, è girato in una Roma dalla ‘grande bellezza’ ed è interpretato da molte icone del cinema italiano contemporaneo, da Luca Argentero a Claudia Gerini (e tanti altri).


Il rimedio la vita e la cura


Il buio non è niente 
son solo luci spente, 
ma è pieno di intenzioni tradite, 
occasioni sprecate 
gettate via per niente. 
E mi rivolgo a te a te, 
che inconsapevolmente 
luce sei e guida sicura, nel tempo riparo 
dal gelo della gente. 
Crolli pure la casa di gesso, non resti neanche il muro. 
Ho soltanto da offrirti me stessa, 
sarà un posto sicuro. 

Mi hai chiamato in un giorno distratto, 
Dio com'è strano non sono sicura, 
ma col tempo ho capito il regalo: 
tu sei il rimedio, la vita e la cura. 

Niente no 
sei tu tu quel niente, 
perché non c'è cosa giusta o proibita 
in questo schifo di vita 
che mi piaccia come niente. 
E nel tuo abbraccio ho trovato un riparo 
dove mi sto scaldando, 
e se io fossi la tua porta sul cielo, 
tu la mia stanza nel mondo. 

Mi hai chiamato in un giorno distratto, 
Dio com'è strano non sono sicura, 
ma col tempo ho capito il regalo: 
tu sei il rimedio, la vita e la cura. 
Sì la vita e la cura. 

Tu sei 
nello spazio sconfinato di una vita insieme, 
la tua pelle è il mio confine e di questa nostra storia silenziosi e soli, 
scriveremo poi la fine, 
la fine. 

Mi hai chiamato in un giorno distratto, 
Dio com'è strano non sono sicura, 
ma col tempo ho capito il regalo: 
tu sei il rimedio, la vita e... 
Mi hai chiamato in un giorno distratto, 
tu mi hai chiamato in un giorno distratto, 
tu sei il rimedio, la vita e la cura. 
Sei il mio il rimedio, la vita e la cura. 
Sì... 
© Danila Faenza 

martedì 16 dicembre 2014

L’anima nel verso: Walt Whitman, Oh me, o vita

Intitolo così questo appuntamento perché la poesia, se è tale, è una delle più profonde manifestazioni dell’anima. E l’anima, anche se di questi tempi non va molto di moda, è l’espressione più pura di noi stessi.
Stasera Roberto Benigni ha concluso le sue due serate dedicate ai Dieci Comandamenti con una poesia di Walt Whitman, Oh me, o vita. Nato negli Stati Uniti nel 1819 e morto nel 1892, è uno dei più grandi poeti americani. La sua O capitano! Mio capitano, dedicata ad Abramo Lincoln, è stata inserita nel film L’attimo fuggente, ampliandone la popolarità.
Qui riproponiamo la lirica che Benigni ha recitato stasera, proponendoci la visione dell’individualità che, essendo unica, può contribuire all’immensa marea dell’umanità, con un verso o una carezza.

O me, oh vita!
Oh me, oh vita !
Domande come queste mi perseguitano,
infiniti cortei d’infedeli,
città gremite di stolti,
che vi è di nuovo in tutto questo,
oh me, oh vita !

Risposta

Che tu sei qui,
che la vita esiste e l’identità,
Che il potente spettacolo continui,
e che tu puoi contribuire con un verso.

© Danila Faenza


giovedì 11 dicembre 2014

Il jukeboxe del passato: Gianni Morandi, Se non avessi più te


E anche per ‘l’eterno ragazzo’ è arrivato l’appuntamento con il quarto ‘anta’.
Oggi Gianni Morandi compie 70 anni con l’orgoglio di chi, da più di 50 anni, tiene alta la bandiera della musica italiana.
Si sa che la sua carriera non è stata rettilinea poiché, dopo un inizio fulminante, ha avuto molti ‘alti’ e un lungo basso, in tutti i sensi: quando, negli anni settanta, arrivò l’era dei cantautori e delle canzoni ‘impegnate’, visse un momento critico, perché le sue canzoni, come quelle di tanti altri, erano giudicate ‘superate’ e superficiali. Ma fu proprio il basso che l’aiutò a superare quel periodo, nel senso che si iscrisse ad un corso di contrabbasso al Conservatorio di Santa Cecilia.
Al contrario di molti suoi colleghi dell’epoca, per popolarità, fortuna od ostinazione, riuscì a risalire la china e tornare al successo con brani come Grazie perché, Canzoni stonate, La mia nemica amatissima e, soprattutto, quella che è diventata un po’ la sua sigla, Uno su mille ce la fa.
Data la lunghissima carriera, è difficile scegliere una canzone che lo rappresenti e, quindi, abbiamo scelto quella che, a nostro parere, è la migliore. E migliore non significa, a volte, più popolare: Se non avessi più te ha una struttura tutt’altro che semplice e, per questo, è molto difficile da cantare.
Del resto è firmata, per il testo, da Franco Migliacci, uno dei più prolifici e talentuosi parolieri italiani e, per la musica, da Bruno Zambrini e Luis Enriquez Bacalov, grande compositore argentino naturalizzato italiano. La coppia di musicisti ha firmato moltissimi brani di Morandi e di altri interpreti (tra cui La bambola di Patty Pravo, Quand’ero piccola di Mina), ma in questa canzone hanno probabilmente dato il massimo.Per avere l’idea di quanto sia ardua l’esecuzione, ascoltatela bene e provate a cantarla: come recita il suo hit, uno su mille ce la fa.
Bravo Gianni e altri 70 di questi giorni.

© Danila Faenza

lunedì 8 dicembre 2014

Le intercettazioni su Denise: chi non le ha viste?

La notizia è di qualche giorno fa, ma è passata quasi inosservata a causa di notizie più eclatanti e che ancora destano stupore, tipo il caso della ‘mafia romana’. Purtroppo, per chi sia un minimo disilluso, non meraviglia che, nell’amministrazione della capitale, ci fossero ‘pasticci’ che coinvolgevano destra e sinistra, delinquenti ed amministratori, affaristi e ‘filantropi’.
Ma che un caso di ‘scomparsa’ venga riaperto dopo dieci anni per un’intercettazione che risale, appunto, a dieci anni fa, lascia perplessi. Parliamo, per chi non l’avesse capito, della scomparsa di Denise Pipitone, sparita da casa il 1° settembre del 2004; l’intercettazione, registrata il 1° ottobre (quindi dopo solo un mese dalla sparizione della piccola), è stata resa nota solo pochi giorni fa, durante il processo d’appello che vede imputata la sorellastra di Denise, Jessica Pulizzi, la quale –durante una conversazione con la sorella- affermerebbe che la bambina sarebbe stata uccisa dalla loro madre, tradita dal marito, padre naturale di Denise.
Perché questo elemento, molto importante, non è mai emerso prima? Al di là della veridicità dell’affermazione, com’è possibile che nessuno, in dieci anni, l’abbia reso noto?
Si parla molto delle lungaggini della giustizia italiana, ma un fatto del genere è inconcepibile: quanti soldi sono stati spesi per quelle intercettazioni, per l’impegno di mezzi e uomini, per processi, interrogatori, indagini?
E, soprattutto, quante energie ha speso Piera Maggio, la mamma di Denise, per cercare la sua bimba, per lanciare appelli, per tenere viva l’attenzione sul suo caso? Quante notti insonni, quanto dolore, quante lacrime, quante speranze frustrate ad ogni segnalazione, quante preghiere, quanta disperazione avranno fiaccato il suo animo? Possiamo solo, lontanamente, immaginarlo.
Dov’erano quelle intercettazioni? Perché nessuno, in 10 anni, le ha lette? Chi non le ha viste?
È un fatto inaccettabile, inconcepibile. Se il contenuto di quei file rispondesse al vero, lo Stato dovrebbe lautamente risarcire Piera Maggio per i suoi dieci anni di dolore, per lo smarrimento, la pena, l’angoscia. Questo non le ridarebbe sua figlia, ma almeno la risarcirebbe, parzialmente, per tanta pena.
Di questi tempi, l’Italia sembra essere tornata un paese di sudditi, non di cittadini. E invece lo Stato dovrebbe pagare per la sua inefficienza, per la sua lentezza, per la sua superficialità.
Questo sarebbe, è doveroso.

© Danila Faenza



Il Jukeboxe del passato: Mango, Lei verrà

Questo è uno di quei casi in cui dispiace ricordare una canzone,  anche se bellissima.
Morto mentre cantava Oro, scritta trent’anni fa, Mango aveva compiuto 60 anni il mese scorso. Prima di raggiungere il successo fu notato da altri artisti, che reinterpretarono alcune sue canzoni, tra cui  Se mi sfiori da Mia Martini, Sentirti e Per amarti d'amore da Patty Pravo, ma sarà solo dopo nove anni dal debutto che il pubblico inizierà ad amarlo, proprio grazie a quel brano che stava eseguendo quando si è sentito male.
Il grande successo arrivò due anni dopo al Festival di Sanremo con Lei verrà, scritta insieme ad Alberto Salerno, marito di Mara Maionchi (che contribuì al successo di Mango consigliandogli di cambiare il testo di Oro). Come spesso capita, il brano arrivò 14° ma conquistò il pubblico.
Da allora Mango non si è mai ripetuto ma ha sempre sperimentato nuove sonorità e ha continuato a scrivere per altri (come Fare l’amore per Mietta, Io nascerò per Loretta Goggi, Re per Loredana Berté, tanto per citare le canzoni più famose).
La sua voce particolarissima e inconfondibile era una delle ragioni del suo successo, insieme allo stile musicale.
Vogliamo ricordarlo proprio con la sua esibizione all’Ariston del 1986, quando era molto giovane, bello e con un grande futuro ad attenderlo.
© Danila Faenza

mercoledì 3 dicembre 2014

Femminicidio: le colpe delle donne


Notizia degli ultimi giorni: un  signore, dopo aver assassinato la moglie, ha postato su Facebook la frase ‘Sei morta, *****’. In poche ore più di 300 cretini hanno cliccato ‘Mi piace’ e, tra loro, almeno 200 sapevano che quel post corrispondeva al profilo di un vero assassino. Probabilmente più della metà di loro ha visto nel delinquente un ‘eroe’ che ha avuto il ‘coraggio’ di fare quel che anche loro fantasticano, visto che attualmente il numero delle donne uccise dai partner o dagli ex si aggira intorno ai 170 all’anno.
Lo scorso 25 novembre era la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e la rete Real Time ha trasmesso un documentario, Storie di violenza domestica, interessante e per niente banale (http://www.realtimetv.it/video/storie-di-violenza-domestica-ep-1-parte-1/). Tuttavia, nel corso del programma, si è fatto riferimento ad un possibile elemento che scatena la violenza, il solito luogo comune: l’indipendenza delle donne, la loro emancipazione.
Ecco, questo è una di quelle affermazioni che mi mandano in bestia, perché non è solo negli ultimi 15 anni che le donne si sono emancipate, perché credo non sia la motivazione ma, forse, una delle motivazioni in un esiguo numero di casi.
Molti anni fa, parlando con un’amica del crescente numero di violenze sulle donne, ‘profetizzai’ che sarebbero cresciute in modo esponenziale e la realtà mi ha dato ragione. A volte dispiace aver avuto lungimiranza, ma a mio parere gli elementi per prevedere un’escalation del fenomeno erano sotto gli occhi di tutti e mi chiedo perché nessuno, tuttora, li veda.
Innanzitutto la crisi economica, che per alcuni è storia recente perché ‘i ristoranti sono pieni’, era già concreta col passaggio dalla lira all’euro, quando i prezzi sono stati selvaggiamente raddoppiati senza alcun controllo e gli stipendi sono rimasti gli stessi. Il resto è storia e non è necessario avere una laurea in sociologia per capire che le difficoltà economiche non sono mai un fattore di serenità ma, al contrario, esasperano gli animi, aggravano le tensioni e fanno lievitare i problemi.
Secondariamente - ma il punto credo sia molto importante- mentre le donne, quando hanno un problema, tendono a parlarne, gli uomini – nella maggior parte dei casi- fanno finta di nulla, specialmente se si tratta di problemi relativi alla coppia. L’amicizia, che per le donne è spesso rifugio, consiglio, confidenza, per i maschi è aperitivo, calcetto e pacca sulle spalle.
Tutto questo accade in un momento storico di enorme solitudine degli individui, che sempre meno comunicano realmente.
Le situazioni di aggregazione che un tempo riunivano le persone intorno ad obiettivi comuni, come per esempio la politica, gli interessi culturali o il banale desiderio di chiacchiere, sono sempre più rare o esistono nel web, come succedaneo di partecipazione reale.
La parola amicizia è stata svuotata di senso, sostituita nella maggior parte dei casi da rapporti virtuali totalmente privi di significato. Il web, per molti, è un mormorio di fondo in cui perdersi per scacciare la noia, dimenticare la realtà, affogare le proprie angosce, stordirsi con giochi elettronici, leggere stralci insignificanti delle vite quotidiane di sconosciuti, ‘condividere’ vacanze e lamentele per farsi notare.
Tutto questo è ben lontano dalla vera amicizia, che è aggregazione, convivialità, scambio, confronto, consiglio, confidenza, affetto, vicinanza, condivisione reale del bene e del male della vita. Le delusioni d’amore, le rotture affettive, i divorzi, fino ad un passato non così lontano si superavano anche grazie alla presenza di amici che portandoti a bere un bicchiere, ascoltando fino alla nausea gli stessi racconti, distraendoti in tanti modi, ti aiutavano, nei momenti più bui, a staccarti almeno per qualche ora dal problema.
L’isolamento in cui però oggi vivono le persone e le coppie è spesso reale, al di là dell’illusione virtuale di avere tanti ‘amici’. In questo deserto di umanità anche la più insoddisfacente o conflittuale relazione a due sembra l’unico porto sicuro per barchette sperdute in un oceano minaccioso.
Ne consegue che se una donna decide di allontanarsi dal proprio partner, a molti di questi uomini non rimane nulla a cui aggrapparsi e lottano strenuamente per conservare anche la più piccola illusione di relazione.
Ovviamente non è sempre così, ma spesso sì. E allora la solitudine, l’abbandono, il dolore, in taluni si sposano con la rabbia, la rivendicazione, la rivalsa, l’ostinazione, il possesso dell’unico ‘bene’ che è loro rimasto. Dall’esasperazione all’esercizio della violenza, alla dimostrazione della superiorità fisica, il passo è, per alcuni, breve.
Ma anche le donne, spesso, sono colpevoli o complici dei loro aguzzini. Sono colpevoli non di essersi emancipate, ma di chiudersi nel silenzio. Per vergogna, per paura, per la solita inutile speranza che ‘lui cambi’, per l’orgoglio che non consente loro di ammettere il fallimento della relazione o di essersi sbagliate sulla vera personalità del compagno.
Colpevoli di credere ancora che l’amore sia compatibile coi ceffoni, che il desiderio di lui di averla solo per sé sia dimostrazione di passione assoluta e non di controllo patologico, colpevoli di credere che ‘la forza dell’amore’ sistemerà tutto.
L’amore, che certamente ha tante facce e che nessuno può definire. Ma, al negativo, si può dire che certamente non è quello che si nutre di soprusi e di violenze.
© Danila Faenza

mercoledì 1 ottobre 2014

Il Jukeboke del passato: Alice, Una notte speciale

Offuscati dagli 80 anni di due ‘super-eroi’ (Gino Paoli e Ornella Vanoni) abbiamo rimandato i 60 di Alice, all’anagrafe Carla Bissi da Forlì, nata il 26/09/1954 sotto il segno della Bilancia… e questo la dice lunga.
Timbro inconfondibile, tono basso raro nelle cantanti (se c’è qualcuna che raggiunge i suoi toni è Milva), ha iniziato la sua carriera a soli 11 anni; nel 1971 vince il Festival di Castrocaro e, l’anno successivo, partecipa al Festival di Sanremo con Il mio cuore se ne va.
Nonostante la lunga gavetta e la personalità notevole, raggiunge il successo solo nel 1980 con Il vento caldo dell’estate, composta insieme al suo amico e mèntore Franco Battiato, a Giusto Pio e al suo compagno (e poi produttore) Francesco Messina.
Da quel momento in poi i successi si susseguono con Per Elisa (con cui vince il Festival di Sanremo nel 1981), Messaggio (1982), Chanson egocentrique (1983) e I treni di Tozeur , entrambe in coppia con Battiato.
Poi scelte diverse, di vita e produzione. La cantautrice praticamente scompare, lasciando il posto alla cantante; sicuramente una personalità del genere ha sempre fatto scelte su basi non commerciali, però mi chiedo che cosa sarebbe potuta essere Alice senza il ‘clan’, cioè libera di esprimere se stessa senza influenze amicali, affettive, spirituali.
Della sua produzione propria (scevra da ‘contaminazioni’ altrui) ricordo Una sera di novembre (dall’album Caponord, 1980) e Una notte speciale, firmata da lei, Battiato e Pio. Però l’istinto mi dice che il nucleo della canzone era suo, intriso di quel misto di romanticismo e sensazioni arcane che contraddistinguono la sua personalità.
Data la splendida forma,  non è troppo tardi per dare spazio all’artista che poteva essere senza quei condizionamenti, anche voluti, che l’hanno forse un po’ sacrificata. Ad ogni modo, essendo realisti…  altri 60 di questi giorni! E, in ogni caso, questa canzone rimane un classico, forse dimenticato, ma che rimanda ad una personalità notevole, piena di musicalità e suggestioni impalpabili ma efficaci: quelle ‘strane donne dal ventre offeso’  rimangono nella memoria più dei ‘dervisci tourner’ ….

© Danila Faenza



martedì 30 settembre 2014

La Rete per pescare i Polli


Su Mtv va in onda una trasmissione che prende il nome da un film: si chiama Catfish, che in inglese sta a significare, più o meno, una persona che finge di essere un’altra, specialmente nel web.
Ho sempre pensato che Facebook fosse un mezzo molto utile per persone che vivono in zone isolate, tanto per intenderci in Alaska o in certe aree del Canada o degli Stati Uniti, dove il vicino vive a 30 km. di distanza; credevo che, in questi, disperati casi,fosse un’opportunità per le persone senza possibilità di socializzazione, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo perché non avevo fatto i conti con la stupidità  e con la dilagante asocialità umana: questi due elementi fanno sì che del tuo vicino di casa o dell’amico di sempre non te ne freghi più di tanto, che cammini per strada col braccio destro quasi ingessato a fissare lo smart-phone, che non te ne freghi nulla di quel che ti succede accanto ma che appaia (e sottolineo, appaia) MOLTO coinvolto dai post di persone che neanche conosci.
Si sa che l’Italia, come altri Paesi, è fortemente condizionata dagli USA, specialmente nelle mode più cretine e, riguardo a Facebook e al web in generale, così è.
Fatto sta che il succitato programma mostra come dei disperati (o cretini, mettetela come vi pare) si ‘innamorino’ di persone conosciute tramite i social-network e, tutto questo, senza averle mai viste di persona e nemmeno ‘conosciute’ su Skype o su altri supporti che permettano di vederle, se così si può dire, ‘dal vivo’.
Sono relazioni che spesso durano anni, con promesse di matrimonio (…) , con progetti di trasferimento, con giuramenti di eterno amore.
Dopo chat infinite e telefonate chilometriche, ovviamente uno dei due (cioè il pollo o la gallina) chiedono giustamente un incontro e, voilà, ogni volta che l’appuntamento è stabilito, l’altro/a è assente per ragioni quasi sempre uguali: disgrazie di famiglia (è morto improvvisamente il padre, la madre ha avuto un ictus, la persona stessa è stata arrestata per qualche motivo, la nonna ha avuto un episodio di emorroidi emorragiche, etc.).
 La demenziale situazione va avanti per anni e, molti, si rivolgono agli autori del programma  Nev Schulman (che ha vissuto un’esperienza simile) e Max Joseph, il regista dello show.
I due fanno indagini in Internet per scoprire, il più delle volte, che l’agognato amore si finge uomo ed invece è donna o viceversa, che si presenta su Facebook con foto ‘rubate’ che lo mostrano come un figo palestrato o una gran gnocca e invece è un bidone o una balena con 60 chili di sovrappeso.
Ovviamente i ‘polli’ rimangono di merda, avendo proiettato tutti i loro desideri su una foto che ritraeva un’altra persona, ma le domande sono: possibile che ci si possa innamorare di una foto? Possibile che si creda per anni a scuse assurde per evitare un incontro? Possibile che i meccanismi ‘tipici’ dell’amore – come lo sguardo, la postura, l’odore- siano completamente rimossi in nome di una ‘figurina’ degna della collezione Panini?
Beh, sono contenta di essere italiana, sono contenta di connettermi poco a Facebook, sono contenta di essere una che si guarda intorno e presta più attenzione a chi passa per la strada piuttosto che a quelli che mi chiedono ‘l’amicizia’ (…).

© Danila Faenza

mercoledì 24 settembre 2014

Il jukeboxe del passato: Gino Paoli, Vivere ancora

Come abbiamo già detto per celebrare gli 80 anni di Ornella Vanoni ( http://danilafaenza.blogspot.it/2014/09/il-jukebox-del-passato-ornella-vanoni.html),  i grandi protagonisti della musica (anche italiana) sono facilmente riconoscibili nei loro grandi successi, intesi come pezzi che hanno fatto la storia del Paese e della hit-parade.
Ma non sempre le canzoni, anche se stupende, salgono ai primi posti delle classifiche. Così come questa ‘chicca’ di Gino Paoli, molto meno conosciuta di Sapore di sale o de Il cielo in una stanza., ma sicuramente non meno preziosa, anzi…
Vivere ancora, pubblicata nel 1964, era il famigerato lato B del 45 giri Lei sta con te, spesso più bello del lato A (quando il lato B ancora non aveva lo stupido significato che ha ora); erano anni d’oro per il Gino Paoli artista, ma anni complicati per il Gino Paoli uomo: sebbene sposato, aveva una relazione con Stefania Sandrelli, donna di cui –pare- fosse innamorato anche il suo amico Luigi Tenco. Come se non bastasse, sia la moglie che la Sandrelli –allora minorenne- erano incinte.
Che siano state queste le cause scatenanti o altre, non lo si può sapere, ma evidentemente Paoli si sentì incapace, ad un certo punto, di gestire la sua vita e, l’11 luglio del 1963,  si sparò al cuore, mancando però l’obiettivo finale: il proiettile si fermò nel pericardio e i medici decisero che era troppo pericoloso rimuoverlo. E ancora è lì, incapsulato, quasi a testimoniare che si muore quando si può, come ebbe a dichiarare lo stesso Paoli: “ Ogni suicidio è diverso, e privato. È l'unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l'amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l'unico, arrogante modo dato all'uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero.”
Già, evidentemente Paoli era destinato ad amare ancora, ad avere altri figli, a deliziarci ancora con la sua arte. Grazie Gino, per aver mancato il bersaglio. E buon compleanno.

© Danila Faenza 

Il jukeboxe del passato: Ornella Vanoni, Fammi andare via

In questo settembre due grandi della musica italiana hanno festeggiato gli ottant’anni, Ornella Vanoni e Gino Paoli, due splendidi ottantenni curiosamente nati a distanza di un solo giorno l’una dall’altro (lei nata a Milano il 22 settembre, lui nato a Monfalcone il 23, anno 1934).
Oltre agli astri, ci pensò il destino a riunirli, e lo fece  negli uffici di una casa discografica, la storica Ricordi, dove il gossip inizialmente li divise, poiché si sussurrava che lui fosse gay e lei lesbica: le voci erano così esatte che lui, ancora oggi, è ricordato come un   tombeur de femmes e, di lei, si dicono tante cose che, comunque, non smentiscono la sua fama di seduttrice.
A parte le inutili pruderie, una cosa è certa: che entrambi hanno scritto un lungo tratto della storia della canzone italiana e, di questa, sono stati due tra i più grandi interpreti e protagonisti.
Sarebbe dunque facile propinarvi un ‘classico’ di entrambi, in questo caso L’appuntamento o Domani è un altro giorno o, meglio ancora, di una canzone di cui entrambi sono stati interpreti, magari in una serie di concerti che hanno tenuto insieme.
Per quel che riguarda questo blog, il desiderio è invece quello di proporre dei pezzi sublimi e meno conosciuti de La gatta o di Che cosa c’è ed il motivo è semplice: per molti autori, interpreti, cantanti, esistono degli hit, dei grandi successi che li rendono immediatamente riconoscibili, ma in carriere così lunghe esistono anche pezzi dimenticati o poco conosciuti che sono altrettanto belli, se non delle vere e proprie ‘perle’. Ecco, questa canzone tratta dall’album  A un certo punto, del 1974, è una canzone stupenda che rende merito alla personalità dell’interprete. Purtroppo, per qualche motivo a me ignoto, non è possibile postare il video (rarissimo), ma lo trovate qua: https://www.youtube.com/watch?v=y-RrPsA5Jxc
Buon ascolto.

© Danila Faenza 

domenica 21 settembre 2014

La follia del web

Conosco persone che, per scelta, non hanno il televisore. Si tratta di gente che vive la televisione come un demone o che, con compiaciuto snobismo, affermano di avere ‘ cose più interessanti da fare’. Niente da obiettare, perché spesso la tv propone un vuoto pericoloso o messaggi del tutto deleteri, come per esempio il fatto che basti apparire giovani, belli e del tutto decerebrati per avere denaro e successo.
Tuttavia la tv, specie quella di adesso, che offre una notevole quantità di canali digitali, propone anche trasmissioni molto interessanti, bei film, fiction gradevoli, documentari che potrebbero sostituire dieci lezioni di storia o di biologia e, al cospetto di queste persone, è imbarazzante constatare che, per esempio, non sappiano chi siano, per esempio, Lilli Gruber piuttosto che Roberto Benigni  o Loredana Berté: li tratti un po’ come si trattano i ritardati o i matti, con quella condiscendenza benevola e un po’ perplessa.
Il punto è che nessun mezzo è, di per sé, totalmente negativo o positivo, ma dipende da come lo si usa, affermazione banalissima ma vera. Il nostro cervello è un organo molto, troppo adattabile, per cui la capacità critica, se non sviluppata, tende a ridursi a zero e a farci comportare come automi non troppo intelligenti.
Qualche mese fa è apparsa la notizia di un’anziana che si è suicidata a causa della disumanizzazione dei rapporti dovuta al web e, in un certo senso, la capisco: una persona novantenne, abituata ad un mondo che esprime la condivisione con la presenza fisica, con la telefonata o con la compagnia, deve essersi sentita tagliata fuori da un mondo delirante, magari da dei figli sessantenni che, invece di parlare con lei, chattavano su Facebook o fissavano rapiti lo smartphone.
Anche Internet ,come la tv, è usato male, specie dai giovani ma, purtroppo, non solo: un mezzo che ha quasi infinite potenzialità viene usato solo per due-tre funzioni- tra le più deleterie- come leggere per ore post del tutto inutili che punteggiano la vita quotidiana delle persone. È una sorta di rito ipnotico, un rumore di sottofondo che impedisce di sentire ciò che si prova, un’anestesia emotiva che riduce il cervello a una pappa insipida, incapace di andare al di là del vuoto.
Se dovessi descrivere questo uso di Internet lo definirei come un atto masturbatorio con preservativo, cioè un surrogato di rapporti reali che potrebbero- oddio, che paura- provocare emozioni, coinvolgimento, dolore, gioia, conversazione, conflitto, condivisione reale.
Certo è più comodo non staccare il culo dalla sedia e avere una parvenza di comunicazione, di compagnia; sicuramente le persone in carne ed ossa sono più difficili da gestire, più problematiche; certo è più facile cliccare ‘mi piace’ – magari su un post che recita ‘ho l’ulcera duodenale’- che non telefonare e chiedere ‘come stai?’.
Davanti al babau della persona vera si preferisce allora commentare i post dello sconosciuto o, magari, dell’amico che non vedi da anni. Se tutto questo ha un effetto di istupidimento in persone adulte, mi chiedo con inquietudine che effetto avrà sulle vite di quelle generazioni nate col web.  Mi immagino scenari drammatici: robot umani paurosi dell’incontro, persone incapaci di relazionarsi con l’altro reale e, soprattutto, un’umanità molto più stupida, incredibilmente ignorante e priva di emozioni. Il Grande Fratello di Orwell, al confronto, è un ipnotista da circo.
Ho sentito che in Italia esistono già due cliniche specializzate nella cura dei ‘web sex addict’, cioè di quelle persone che praticano compulsivamente il sesso online e non sono in grado di praticarlo nella realtà.
Attendo il momento in cui si potranno far figli spedendoli come allegato.


© Danila Faenza

mercoledì 17 settembre 2014

Scoop! Le verità sconvolgenti sul divorzio Banderas-Griffith

Durante quest’estate un altro matrimonio vip che sembrava solidissimo è terminato, quello tra Antonio Banderas e Melanie Griffith.
La  rottura era nell’aria già da un po’, ma è stata lei a chiedere il divorzio per “differenze inconciliabili”. Non c’è da stupirsi: la figlia di  Tippi Hedren, protagonista de Gli uccelli e Marnie del maestro Alfred Hitchcock, era da tempo insofferente ai cambiamenti del marito; aveva sposato un attore diventato icona gay dopo i ruoli interpretati per Almodovar, poi sex symbol latino che faceva sognare le donne e, nel giro di poco tempo, si trovava sposata ad un fornaio ossessionato dal suo lavoro.
Tutto questo era da tempo motivo di diverbio nella coppia: il glamour era scomparso davanti ad un Antonio che ballava il liscio nell’aia accanto a contadine attempate e in sovrappeso, ad un uomo che invece che sussurrare ai cavalli parlava con le galline, che invece di presentarsi ai produttori con progetti cinematografici faceva la predica ai mugnai su come macinare il grano. La cosa peggiore per la Griffith, però, era che il biscotto di Antonio un tempo era ‘inzupposo’ ma ora, ahimè, non si inzuppava più nulla se non le Macine e le Campagnole.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una festa hollywoodiana cui la coppia ha partecipato, una goccia composta da molteplici, imbarazzanti episodi: appena giunto al party, Banderas ha preteso di parlare col responsabile del catering per rimproverarlo della qualità del pane degli stuzzichini e, in seguito, si è chiuso in cucina a preparare ‘il suo pane’; tornato in sala, ha brancato Quentin Tarantino per proporgli la regia di una sua sceneggiatura, la vita felice di una famiglia italiana che vive in un mulino. Tarantino gli ha vomitato addosso, ha spaccato un tot di piatti ed è stato arrestato. Poi è stata la volta di un esterrefatto Bruce Willis, a cui il bell’Antonio ha attaccato una pezza di due ore sullo spessore delle fette biscottate; in seguito, sempre più infoiato, ha preso a braccetto Woody Allen cercando di convincerlo a suonare il Flauto al posto del clarinetto; non pago di questo, Banderas avrebbe avvicinato Sharon Stone parlandole a lungo della bontà, della bellezza, delle qualità della Camilla: la diva, pensando che il collega la stesse paragonando alla moglie del principe Carlo, gli ha buttato in faccia il  Moët et Chandon e, al grido di ‘asshole!’, ha abbandonato la festa.
A quel punto, nonostante la vergogna, la Griffith, per rimediare al danno, ha baciato il marito e gli ha sussurrato ‘Andiamo a casa e diamoci qualche abbraccio’, al che lui –pensando ai frollini- avrebbe ceduto alla lusinga. Una volta giunti nella faraonica villa, Melanie ha propinato al marito una riga di coca spacciandola per farina, quindi lo ha invitato a spogliarsi in piscina, mentre lei eseguiva un sensuale spogliarello sulle note di Romagna mia.
Banderas sembrava cotto a puntino, con lo sguardo perso e lubrico ma, proprio sul più bello, ha guardato la moglie con espressione intensa e ha detto: “No puedo, mi amor: estoy muy preoccupato per Rosita: come gallina es già anzianotta e non trova il galletto giusto para ella…” Dopo queste parole, dicono i vicini, è scoppiato l’inferno: grida, rumori di padelle sbattute, vetri infranti, biscotti volanti. La mattina dopo, tutti gli effetti personali di Banderas sono stati caricati su un camion della Barilla. Ora il tutto è in mano agli avvocati che, si sa, quando si tratta di divorzi miliardari, hanno le mani in pasta…


© Danila Faenza

sabato 13 settembre 2014

Giuni Russo, una voce prigioniera e un'anima libera

Dieci anni fa moriva, a soli 53 anni, Giuni Russo, una delle più grandi cantanti italiane e, da certi punti di vista, l’unica. Voce insuperabile, di stampo lirico, conobbe un grande successo con alcuni brani che lei stessa definiva ‘canzonette’, pur essendo grata a quegli hit.
Ogni estate, nonostante il tempo che passa, sento Un’ estate al mare e mi viene il mal di fegato pensando che, purtroppo, per gran parte del pubblico Giuni Russo era quella cantava questo tormentone. Invece era molto di più, anche se una discografia miope e anche un po’ masochista le ha imprigionato la voce in nome di un rientro economico facile ed immediato: è veramente stupido cercare di manipolare un artista in nome del dio denaro e forzarlo a vivere una vita che non è sua. Anche dal punto di vista economico, il pubblico capisce, intuisce l’autentico talento e, quando il sedicente artista si dimostra non tale, lo abbandona dopo l’iniziale entusiasmo: se ripercorrete mentalmente gli ultimi anni di ‘talent show’ e di alcuni hit rimasti l’unico successo dell’interprete, perderete il conto dei tanti ‘fuochi fatui’ che ci hanno propinato.
Giuni Russo, invece, in quest’ intervista, ci insegna qualcosa di importantissimo: che quando una vocazione è autentica e sincera va seguita fino in fondo nonostante le difficoltà, i boicottaggi, le momentanee delusioni. Perché quel tipo di predisposizione, di talento, sono nel nostro Dna,  nel nostro destino, nella nostra anima: chiamate questa ‘chiamata’ come volete, ma fa parte di noi. Che si tratti di talento artistico, di passione per una professione o un mestiere o anche, solo, della necessità di una vita tranquilla, movimentata, spericolata o banale, quello è. E, senza la tensione verso quella meta, la vita perde di significato. I riconoscimenti, anche se spesso postumi, testimoniano che Giuni Russo era riuscita, nonostante gli ostacoli, a trovare il senso della sua vita, il che non è poco.


© Danila Faenza

giovedì 11 settembre 2014

Il ricordo dei morti, la memoria dei vivi






Da quando, tredici anni fa, si verificò la tragedia dell’attentato alle Torri Gemelle, sento e leggo (ahimè, purtroppo, anche su testi scolastici) che, da allora, ‘la nostra vita è cambiata ’. Pare che questo sia  un assioma che, se messo in discussione, ti pone tra i probabili seguaci dei terroristi . Ormai il ‘Grande Fratello’ (non l’idiozia televisiva, ma quello previsto da George Orwell nel suo romanzo 1984) ha raggiunto il potere, anche senza troppi controlli: il conformismo ormai è una necessità, mentre il pensiero critico è una sorta di deformazione, di handicap, di provocazione.
Nessuno nega l’impatto traumatico che l’11 settembre ha provocato nelle coscienze, né la follia che lo ha ideato; il punto è che, ormai privi di un’identità (individuale, collettiva, nazionale) non abbiamo più memoria né spirito critico, qualità che servirebbero ad affermare che quel giorno ha probabilmente mutato la vita degli americani, ma non la nostra. Come direbbe Vasco, ‘non siamo mica gli americani’
Infatti, se gli Usa hanno visto una sola guerra sul loro territorio (quella civile, di Secessione, svoltasi  tra Nordisti e Sudisti tra il 1861 e il 1865), purtroppo l’Europa è stata teatro di numerose guerre, tra cui le più drammatiche, le Due Guerre Mondiali; in seguito, tra gli anni ’70 e ’80, molti Paesi europei hanno vissuto il dramma del terrorismo. E, per quel che ci riguarda, non possiamo dimenticare che l’ultimo, folle atto terroristico è avvenuto nel 2002 con l’omicidio di Marco Biagi.
Noi italiani , quindi, conosciamo bene la paura, l’insicurezza, il dolore del terrorismo, delle stragi, delle morti tragiche quanto inutili di tante persone che avevano la sola ‘colpa’ di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Poco più di un mese fa è stato celebrato il 34° anniversario della Strage alla stazione di Bologna, momento in cui, oltre ai morti, si ricordano i troppi dubbi, i troppi segreti, le troppe deviazioni, la troppa ideologia, i troppi misteri intorno alla Verità. E, purtroppo, ancora, troppa poca memoria: aldilà dell’annuale commemorazione, in cui tutti si sentono in dovere di ricordare, l’amnesia collettiva invade i restanti 364 giorni. e, non a caso, ne scrivo solo oggi.
Certo non si può ricordare tutto in ogni giorno della propria vita, ma mi ha sempre stupito la sostanziale rimozione dei superstiti della strage. Ho conosciuto persone la cui vita è davvero cambiata, in quel giorno: persone che erano nei paraggi della stazione e che sono state ossessionate da ricordi atroci per lungo tempo, persone che –da allora- non sono più salite su un mezzo pubblico, persone che sono state traumatizzate irrimediabilmente da quell’ evento.
Sappiamo che i morti tacciono, mentre i vivi possono parlare e ricordare. E mi sono sempre chiesta, in questi decenni, come quella tragedia abbia segnato la vita di coloro che, il 2 agosto del 1980, sono scampati per un soffio alla morte. E perché mai nessun giornalista, regista, documentarista abbia pensato di raccogliere i ricordi e le testimonianze dei superstiti di tutte le disumane stragi perpetrate in Italia.
Ora la mia curiosità (umana e non certo morbosa) ha avuto una risposta, almeno parziale, attraverso il bel docufilm Un solo errore, di Matteo Pasi, finalista al Premio Ilaria Alpi 2013 nella sezione “migliore inchiesta televisiva italiana”. Lo potete vedere qui:  http://www.arcoiris.tv/scheda/it/15916/
Guardatelo, ne vale la pena: a parte le testimonianze di chi, in quel giorno, ha avuto la propria vita lacerata per sempre, c’è una sequenza che potrebbe cambiare le vite di molti, portandoli (o riportandoli) ad una ‘giusta’ rabbia, alla sete di verità e di lotta, la sequenza in cui Licio Gelli afferma che, secondo lui, il disastro è avvenuto a causa di un mozzicone di sigaretta che, a causa del caldo, ha creato una sorta di autocombustione. Già, si sa che fumare fa male…


© Danila Faenza

giovedì 24 luglio 2014

Un libro un film: L'innocente

Gabriele D’Annunzio mi è sempre stato indigesto e non per la fama di Vate del Fascismo: per fortuna (o purtroppo) sono sempre stata molto indipendente nei miei giudizi e spesso controcorrente , tanto che, fin da giovane, detestavo D’Annunzio ma amavo (e tuttora amo) Nietzsche, ritenuto per molto tempo un teorico del Nazismo (giusto perché il libero pensiero, per molti, non ha diritto d’esistere e lo si deve incasellare in qualche misera nicchia ideologica).
I motivi della mia avversione nei confronti di D’Annunzio non sono quindi ideologici, ma semmai ‘epidermici’ ed estetici.
Riguardo al primo punto provo una certa antipatia ed istintiva repulsione verso coloro che esaltano se stessi e cercano di fare della  loro persona un mito: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di casi patologici che, nei casi più fortunati, sono eccellenti artisti ma esseri umani miserabili; nella peggiore delle ipotesi,  pessimi aspiranti artisti (politici, artigiani, industriali, insegnanti e qualsiasi altro mestiere facciano) che, umanamente, sono sotto il minimo sindacale.
Dal punto di vista poetico, invece, ho sempre trovato l’arte di D’Annunzio perfetta dal punto di vista stilistico, metrico e musicale, ma assolutamente priva di qualsiasi spessore emotivo e arida dal punto di vista dei contenuti.
Date queste premesse, potrete capire con quale stato d’animo mi sono avvicinata alla lettura de L’innocente (1892) e, forse,vi chiederete anche il perché l’abbia letto. La risposta è semplice: ricordavo, con un certo turbamento, il film di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo. Si tratta dell’ultima opera del grande regista milanese, morto due mesi prima della presentazione della pellicola al Festival di Cannes del 1976.
Il disagio provato nel vedere il film si spiega con la trama dell’opera, purtroppo ancora attualissima sebbene siano trascorsi ben 122 anni dalla sua creazione.
Ora ignorate l’italiano ottocentesco, la prosa ampollosa, le ridondanze e gli estetismi e concentratevi solo sulla vicenda: il giovane rampollo Tullio Hermil, dopo l’infuocata passione che lo ha unito alla moglie Giuliana, vede in lei solo una sorella. Dopo sette anni dal matrimonio e due figlie, ha stabilito un patto di ‘sincerità’ con la moglie, mettendola a parte delle sue passioni extra-coniugali (e, quindi, delle sue lunghe assenze, dei suoi viaggi, dei suoi estraniamenti dalla vita familiare). Il protagonista ‘giustifica’ il suo comportamento con una superiorità morale che lo distingue dagli altri uomini (sì, proprio…), con un’indole ‘particolare’ dovuta a non ben precisati ‘complessi’ (tipo i Rolling Stones o gli Abba). 
La moglie, sempre affetta da vaghe malattie  (Freud non era esattamente un cretino), accetta passivamente l’esuberante vita sessuale del marito, mostrandosi sempre mite, complice, compiacente e, soprattutto, madre (del marito).
Dopo l’ultima devastante passione, il protagonista cade in una sorta di deliquio psicofisico che, unito al sempre più evidente distacco della moglie (strano, eh?), lo porta a considerare l’idea di un ritorno ‘all’ovile’ caratterizzato dalla passione dell’inizio, dall’ansia della conquista e dal risorgere dell’Amore.
Purtroppo, a corrompere questa fantasia di estasiante armonia coniugale interviene una gravidanza, inaspettata ed ovviamente adulterina; ed ecco che il Tullio cade nella gelosia, nell’ossessione erotica verso la moglie e nella disperazione.
Il ‘super-uomo’ indifferente al giudizio altrui ed alle convenzioni, comprende il tradimento della moglie ma… comincia a tormentarsi sull’identità dell’Altro, sugli atti compiuti dalla moglie e, soprattutto, sul fatto che questa abbia accolto ‘le escrezioni di un altro uomo’. Il tradimento si potrebbe superare, ma non la prova tangibile di esso, l’Intruso, il Bastardo.
Con questo stato d’animo il protagonista comincia prima a sperare in un aborto spontaneo, poi a progettare un infanticidio, complice l’acquiescente moglie-madre-serva.
Bene, se volete conoscere il finale leggetevi il romanzo e/o guardatevi il film, ma la morale è che dopo 122 anni (122, non 22) la psicologia maschile non sembra essere cambiata molto, a parte qualche eccezione. La lista delle donne uccise per motivi simili (ma, in generale, per ragioni molto più banali) si allunga di giorno in giorno e ci si chiede che cosa impedisca agli uomini (intesi come maschi) di passare dall’egocentrismo infantile che tutto loro consente a delle regole di convivenza ‘affettiva’ che, in definitiva, rappresentano l’accettazione dell’altra/o . 
In questo caso D’Annunzio riesce ad esprimere profondamente le emozioni e le reazioni maschili davanti ad una donna che, esasperata dall’assenza del marito, ha ‘l’ardire’ di tradirlo. E, come è noto, il tradimento femminile, in fieri, può portare anche a portarsi in casa un Intruso, prova vivente che la Donna è stata ALTROVE. Quell’altrove, che è legittimo per l’uomo, diventa intollerabile se a visitarlo è la donna.

© Danila Faenza

mercoledì 16 luglio 2014

Il jukeboxe del passato: Bella d'estate

Scritta dallo stesso Mango e da Lucio Dalla nel 1987, esplose dall’album Adesso, che conteneva anche il brano che l’artista lucano aveva presentato al Festival di Sanremo senza molto successo, Dal cuore in poi. Del resto le canzoni, come le persone, hanno un loro dna, e non basta promuoverle su un palcoscenico popolare per farle amare: è quello che trasmettono che colpisce il cuore, i nervi e quelle corde misteriose che la musica tocca.
Così Bella d’estate, con la sua malinconica sensualità che , non a caso, nasce da due personalità musicali così diverse ma intense, incanta il pubblico, che la premia in termini di vendite e di ascolti.
Tra i tanti tentativi di 'canzoni per l'estate', è uno dei più riusciti, a mio parere: la musicalità di Mango, la sua particolarissima voce, si uniscono ad un testo che rimanda agli effimeri amori estivi, ma non solo.
Peccato che sia rimasto l’unico esperimento tra i due, ma forse perché  “bastava arrivare fin qui, come onde di notte sulla spiaggia” . 
© Danila Faenza

sabato 12 luglio 2014

RE(VISIONI): MAGNOLIA

La parola ‘nemesi’ è la chiave per interpretare Magnolia (1999), il bellissimo film di Paul Thomas Anderson.
Secondo la mitologia greca, Nemesi distribuiva il fato in modo tale da riparare i danni fatti o le fortune immeritate; si tratta, insomma di una forza equilibratrice, in qualche modo livellante e riparativa.
Il film è corale e costituito da nove storie che in qualche modo si intrecciano: in ogni episodio, ognuno dei personaggi incontra la sua ‘ombra’, la parte negata di sé, la sua paura, il suo tabù, la sua ossessione negata, il suo amore represso, la misericordia rifiutata, il rigore ignorato.
Il destino, più ancora che il lettino dello psicoanalista, mette i protagonisti al muro, costringendoli ad affrontare ciò che, con caparbietà, superficialità ed ipocrisia, hanno sempre cercato di sfuggire.
Linda ( una sempre bellissima ed intensa Julianne Moore), è la moglie di un anziano malato terminale (Jason Robards) che ha sposato solo per i suoi soldi ma che, ora, ama: vuole rinunciare all’eredità per i sensi di colpa che ora prova; “Quiz Kid" Donnie Smith (William H. Macy, che ricordiamo come interprete di Fargo) è un ex bambino prodigio caduto in disgrazia che mette un atto una rapina per mettersi l’apparecchio ortodontico al fine di conquistare il giovane barista di un pub per gay.
Il regista è talmente abile da riuscire anche a far recitare bene perfino Tom Cruise, nel  ruolo di un ‘santone della misoginia’ e del sesso come effimero potere e fonte di rivalsa sulle odiate donne.
Magnolia ricorda, per certi aspetti, il Robert Altman di America Oggi (Short Cuts, 1993), capolavoro del compianto regista americano; uno degli elementi di somiglianza è l’intervento finale della forza incontrollabile della natura (in Altman il terremoto, in Magnolia la pioggia di rane) che, in qualche modo, fa pensare alla giustizia divina. Ma se in un caso prevaleva il pessimismo, in questo film la sensazione finale è liberatoria, come quando si è saldato un debito, riconosciuto un proprio errore, ritrovata la fiducia nella possibilità di un nuovo inizio.
Non è probabilmente una coincidenza che la pioggia di  rane sembri ispirata da una delle Piaghe d’Egitto (la seconda) descritta nell’Esodo della Bibbia (http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Es7%2C26-8%2C11&formato_rif=vp ), in cui Dio dice a Mosè di recarsi dal faraone per intimargli di lasciare andare il suo popolo (gli Ebrei) affinché possano servirlo e, in caso di rifiuto, minaccia un’invasione di rane.
Aldilà dell’interpretazione religiosa,  il messaggio sembra spronare alla liberazione dalla schiavitù del desiderio del potere materiale e dai propri schemi mentali ed incoraggiare verso l’apertura dell’anima. E se tutti i dolori e le paure dei personaggi sono connessi tra loro, realizzare un cambiamento personale forse significa anche irradiare pace su chi ci circonda, piuttosto che odio, rabbia e frustrazione. Magari funzionasse sempre così.
Per chi l’avesse perso o volesse rivederlo, in onda stasera, domenica 13 luglio, su Iris alle 21.

© Danila Faenza 

mercoledì 9 luglio 2014

Un libro, un film: Senza destino

Se chiudete gli occhi e pensate ad un campo di concentramento, come lo vedete?
Personalmente, lo vedo in bianco e nero. Sarà per i filmati e le foto d’epoca, ma lo immagino così: in bianco e nero e innevato. Invece, nonostante la ferocia distruttiva degli uomini, la natura continuava il suo percorso, mostrando tramonti rossastri, prati verdi, nuvole basse e dense di pioggia, soli accecanti, foglie morte e fiori che sbocciavano.
Questo è, in parte, il senso di Essere senza destino (Feltrinelli, 2004),  capolavoro dello scrittore ungherese Imre Kertész (1929), premio Nobel per la letteratura nel 2002. Si tratta di un romanzo autobiografico che ricorda l’esperienza dei campi di concentramento in cui fu deportato, quindicenne, nel 1944, e da dove fu liberato, nel 1945.
Riassunta in questo modo, la vicenda può assomigliare, purtroppo, a tante altre. Ma non è così: la particolarità e, diremmo anzi, l’unicità del romanzo di Kertész, sta proprio nella differenza di percezione della tragica esperienza che si può riassumere in questo brano: “Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.”
E, questo, nonostante, al suo ritorno, nessuno dei suoi correligionari credesse ai suoi racconti, perché come disse ogni buon nazista ‘se lo racconterai, nessuno ti crederà’.
Probabilmente questa visione di Kertész si spiega in parte col carattere, quel misterioso connubio tra dna, apprendimento e anima, in parte con l’inarrestabile vitalità di un adolescente che, nonostante tutto, vuole vivere.
Se il romanzo è originale, il film quasi omonimo, Senza destino (2005) , diretto da Lajos Voltai,  è stupendo e rende le sensazioni percettive del protagonista.
Visivamente straordinario, con una fotografia splendida, la pellicola rende esattamente quel che l’autore provava: il contatto con la natura che, nonostante la prigionia, continuava ad esistere, ignara delle sofferenza umane. E attraverso il passaggio delle stagioni, il giovane sembra mantenere un rapporto con la vita, con un futuro che, nonostante tutto, continua ad immaginare. Quasi che la vitalità del ragazzo, mai spenta, si alimentasse di piccolissimi particolari per aggrapparsi ad una sopravvivenza incerta. Ed allora, perfino in una situazione disumana, un barlume di felicità può accendersi davanti a un fiore che emana il suo colore nel buio della desolazione.
Proprio questo attaccamento viscerale alla vita farà sì che il protagonista riesca a sopravvivere e a non disperarsi, una volta tornato a casa,  davanti alla solitudine, all’incredulità e dal negazionismo perfino della sua stessa stirpe.
Da non perdere per chi non l’avesse visto; in onda domani sera, giovedì 10 luglio su Iris, alle 23,20.
© Danila Faenza 

lunedì 7 luglio 2014

Il jukeboxe del passato n. 1: Chiedi chi erano i Beatles

Sono, da sempre, un’amante della musica italiana (nessuno è perfetto). E, su questa base, da tempo mi chiedo come mai le canzoni degli anni ’60-’70 siano ancora degli evergreen, pezzi che tutti conoscono, spesso riferimenti per i giovani, le scelte di tanti debuttanti che si presentano ai talent-show musicali.
Sicuramente, di fondo, ci sono scelte industriali molto mutate nel tempo, ma questo non basta a spiegare il perché ci ricordiamo di Sapore di sale e non del brano che ha vinto l’ultimo Sanremo (a proposito, qual era?). Come Marzullo (‘si faccia una domanda e si dia una risposta’) credo di aver individuato, se non LA risposta, perlomeno DELLE risposte.
L’industria discografica, il primo elemento che ho citato, è sicuramente uno degli elementi; ma poi ne esistono altri, ovviamente:
1) La fonte, ovvero la qualità: e intendo la qualità umana, artistica, che riesce a superare le barriere del tempo e delle mode; senza voler portar sfiga a nessuno, chi mai si ricorderà, tra dieci anni, di quel pezzo del tal rapper, di quella canzone di quel gruppo che ha vinto quel talent o che ha avuto successo nell’estate del 2000? Citando Morandi (Gianni) ‘Uno su mille ce la fa’;
2) Il ricevente: oltre alla qualità dell’artista, è cambiata anche la qualità del pubblico. Certo ci sono i fans club di questo o quell’ artista, ma spesso sono paragonabili a piccole isole di cultori o spazi confinanti con la necessità del ricovero coatto.
La realtà, a mio parere, è che tutto (musica compresa) è diventato rumore di fondo in una dimensione consumistica che brucia  storie di vita, amori, amicizie, esperienze, conoscenze, studi, competenze. Si tende ad archiviare tutto, quando non a cestinarlo. In più, non sapendo come sostituire le ideologie, si abdica alle idee.
Non a caso, nel titolo del mio blog, parlo di memoria: essere senza memoria significa essere senza radici, senza appigli, senza storia. Purtroppo l’abuso dei social network, che rappresentano per molti una sorta di anestesia per evadere da se stessi, è una delle cause, ma anche un alibi per chi vuole vivere ‘cogliendo l’attimo soporifero’ e dimenticando la vita.
Vedo gente della mia età (quasi una citazione gucciniana) contemplare lo smartphone ignorando le persone presenti; mi dispiace per loro, ma ad ‘una certa età ’ queste sono scelte più o meno consapevoli. Ciò che trovo preoccupante è che, per molti giovani, questo sia l'unico modo di relazionarsi ad una realtà sempre meno umanamente ricca.
Gli artisti, se sono tali, sono spesso anche veggenti, nel senso che sanno fiutare l’aria che tira e anticipare i tempi. Arthur Rimbaud, non a caso un genio, scrisse:
“Adesso, mi intestardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: voi non ci capireste niente, ed io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Perdonate il gioco di parole”
Roberto Roversi (Bologna, 1923-2012) era un poeta vero (non un architetto di versi) e, oltre a tante liriche e testi per Lucio Dalla, scrisse i versi, davvero profetici trattandosi del 1984, di una delle più belle canzoni italiane, Chiedi chi erano i Beatles, musicata da Gaetano Curreri, il cantante (ora si dice frontman) degli Stadio. Viviamo in un’epoca in cui, citando Paolo Conte, ‘la memoria è labile’.
Grazie Gaetano e  Roberto, avete scritto un capolavoro musicale e di veggenza.
© Danila Faenza

venerdì 4 luglio 2014

Un libro, un film: La bestia nel cuore


Cristina Comencini è, in Italia, l’unico esempio di scrittrice-regista. Intendiamo come rappresentante dell’altra metà del cielo: l’altro autore che scrive e trae film dai suoi romanzi è Pupi Avati.
Certo, per chi sa anche scrivere in prosa, è probabilmente più facile tradurre in immagini le emozioni che voleva trasmettere ma, nello stesso tempo, appare  più difficile creare un’opera a sé stante mettendo da parte le parole per condensarle in immagini.
La bestia nel cuore (2005) della regista romana, tratto appunto dal suo romanzo omonimo, è un esempio lampante di come questa delicata operazione sia, in questo caso, perfettamente riuscita.
Il tema, per chi non avesse visto il film né letto il libro, è quello dell’abuso sessuale sui bambini da parte dei genitori. Purtroppo questo atto odioso è molto più agito all’interno delle famiglie che da parte di estranei, con l’aggravante che avviene proprio da parte della persona (il padre) che dovrebbe, in teoria, tutelare e proteggere la famiglia: questo fa sì che il trauma sia ancora più devastante, perché va ad intaccare quella fiducia che dovrebbe essere alla base dei rapporti genitori-figli. Ma, del resto, sappiamo bene che l’ormai famosa ‘famiglia del Mulino Bianco’ non esiste se non negli spot pubblicitari e che, ora più che mai, le responsabilità genitoriali vengono spesso surclassate da impulsi egocentrici se non distruttivi.
Protagonisti della storia sono due fratelli, Sabina e Daniele, interpretati, nel film, dalla sempre bravissima Giovanna Mezzogiorno (Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile nel 2005) e da  Luigi Lo Cascio.
Sabina vive una vita normale ma, dopo la riesumazione e lo spostamento delle salme dei genitori, comincia ad avvertire un disagio legato ad incubi ricorrenti. Rendendosi conto che non ricorda la sua infanzia, decide, per le feste di Natale, di andare a trovare suo fratello, che vive negli Stati Uniti. Lì si renderà conto che anche il fratello ha delle problematiche legate al suo ruolo paterno.
A raccogliere le confidenze di Sabina la sua migliore amica, Emilia (Stefania Rocca), da sempre segretamente innamorata di lei e divenuta cieca; Maria (Angela Finocchiaro, David di Donatello 2006 come migliore attrice non protagonista) dovrà prendersi cura di lei durante la vacanza di Sabina e, alla fine, ognuno dei personaggi troverà una via d’uscita  alla propria infelicità.
Ad alleggerire l’atmosfera, rispetto al romanzo, è proprio la presenza di Angela Finocchiaro, bravissima come sempre e assolutamente esilarante.
Un romanzo da leggere, un film da vedere per chi non lo ha visto, da rivedere per coloro a cui è piaciuto.

© Danila Faenza 


lunedì 30 giugno 2014

Domani è un altro giorno… e francamente me ne infischio


Ieri, 30 giugno, ricorreva il 78° anniversario della pubblicazione di Via col vento di Margaret Mitchell ( Atlanta, 8 novembre 1900 – 16 agosto 1949), che vinse il Premio Pulitzer l’anno dopo (1937), contando 180.000 copie vendute in quattro settimane ed un milione in sei mesi.
Tutti – o quasi- conoscono il film del 1939 diretto da Victor Fleming, ma pochi hanno letto il romanzo, torrenziale come il film e, soprattutto, romanzo storico a tutti gli effetti. Infatti, mentre il film si concentra sulla storia della protagonista, il romanzo è uno spaccato del periodo della Guerra di Secessione degli Stati Uniti, l’unica guerra sul territorio che gli Stati Uniti abbiano mai vissuto.
Al centro di tutto, lei, Scarlett /Rossella, una donna volitiva e determinata, come tutte le donne del Sud del mondo, che pensa sempre che ‘Domani è un altro giorno ’, fregandosene anche dei sentimenti, che considera come corollario di un’esistenza pratica e mirata alla sopravvivenza.
Nella sostanza, una donna ‘all’avanguardia’ che, nel linguaggio pre-femminista e dei tempi, equivaleva a comportarsi come un uomo medio. D’istinto (o per generazione, cultura, sesso) puoi amarla o considerarla una stronza, ma difficilmente te ne dimentichi. Rossella è una di quelle che la mia generazione, citando Lucio Battisti, potrebbe definire come della categoria ‘io vorrei, non vorrei ma se vuoi….” . E lui, giustamente, a un certo punto, “se ne infischia”.
L’autrice, un fiero e tenace Scorpione, impiegò dieci anni a scrivere il romanzo. Ne valeva la pena perché, a parte il successo del film, che vinse ben 10 Oscar (tra cui il primo Oscar a una persona di colore, nella fattispecie Hattie McDaniel nel ruolo di Mami), è riuscita ad imprimere nell’immaginario collettivo di tutto il mondo un’icona femminile, quella Miss Rossella che, nonostante gli ostacoli e la sorte avversa, tra un monito di Mami (“Quello che giovanotti dire e quello che pensare essere due cose, e a me non parere che lui [Ashley] avere chiesto di sposarti!”) e un giusto ‘vaffa’ di Rhett ( “Francamente me ne infischio”), continua imperterrita a inseguire le sue mete concrete ed i suoi capricci amorosi.
A parte le caratterizzazioni, cinematografiche e non, il romanzo è un bel viaggio nella storia americana, spesso sconosciuta ai più, se si eccettuano i ricordi infantili delle battaglie tra Nordisti e Sudisti.Una lettura gradevole, sicuramente adatta per l’estate.
Margaret Mitchell, Via col vento, Mondadori
© Danila Faenza

venerdì 27 giugno 2014

L'orrore nostrano

Quando si parla di horror, il pensiero va automaticamente agli USA e, ovviamente, al re del genere, Stephen King. In  modo quasi inconscio riteniamo che si tratti di  qualcosa di importato, lontano dalla nostra cultura. Invece anche noi abbiamo una tradizione horror, tutta nostrana.
Qualche notte fa, Iris ha programmato La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, un film del 1976, la prima incursione nell’horror del regista bolognese; proprio rivedendo questa pellicola, ambientata nella campagna ferrarese, pensavo a quanto materiale ‘horror’ ci fosse nella cultura delle nostre campagne, nella vita rurale del passato, in quelle storie raccontate alla sera, quando i nostri antenati si ritrovavano nelle stalle, riscaldati dai corpi delle bestie.
La mia nonna paterna era nata a Monterenzio, un paese di  una delle valli montane dell’Emilia, vicino a Bologna; quando ero bambina ero affascinata dalle storie che mi raccontava, anche se erano spesso vicende inquietanti e paurose.
Il diavolo, ovviamente, era uno dei protagonisti più frequenti, quel diavolo che lei chiamava Luciferro (sic): erano opera sua i fuochi misteriosi che si accendevano e spegnevano da soli e che illuminavano a intermittenza il crinale delle montagne. E quando da piccola si rifiutava di mangiare e di indossare vestiti, pretendendo di scorazzare nuda, la colpa fu attribuita ad una possessione diabolica; la portarono allora al Santuario della Madonna sul Monte delle Formiche, per farla benedire da un prete.
Su quel Monte si verifica, tuttora, un evento molto strano, che spiega il nome del luogo: in settembre, intorno all’8, giorno della festa della Vergine, grossi  sciami di formiche alate volano intorno alla vetta e muoiono, cadendo sul sagrato.
E ancora storie misteriose e incredibili, che oggi chiameremmo ‘leggende metropolitane ’ e che, in fondo, nascevano probabilmente nello stesso modo, con un passaparola sussurrato che, di bocca in bocca, si arricchiva di particolari nuovi e sempre più fantasiosi, come la storia della ‘donna cavallo ’. Si narrava di un medico, molto stimato, cui nacque una figlia metà donna e metà cavallo; il padre, per nasconderla al mondo, fece costruire una villa in un luogo isolato, circondata da altissime mura. Lì la creatura viveva accudita da una governante e, quando ‘aveva le sue cose ’, nitriva e diventava aggressiva. La causa di questa deformità, si diceva, era dovuta al fatto che la madre era stata spaventata, durante la gravidanza, da un cavallo imbizzarrito; altre voci, più maliziose, alludevano ad un’altra ipotesi, tanto impraticabile quanto prosaica. A corollario della storia, la moglie del medico, dopo la sciagurata nascita, era impazzita.
In queste storie di campagna, nelle tradizioni e nelle memorie locali, ci sarebbero infiniti spunti per racconti e film horror: anche Grazia Deledda, nei suoi romanzi, inseriva richiami simili, citando le janas, piccole fate,  le panas, spiriti di donne morte di parto, ed altre creature del folclore sardo.
A differenza dell’horror anglosassone, spesso ambientato nelle città, alimentato da eventi catastrofici o da creature mostruose di origine ignota, il nostro orrore si nutre della natura e dei misteri che, talvolta, essa sembra racchiudere. Oppure nasce dalla fantasia popolare, da storie misteriose di paese, dai  riti e dalle tradizioni della nostra terra.
Un romanziere, nonché antropologo ed etnologo, ha preso spunto da queste atmosfere del passato per creare un horror tutto nostrano, che è stato definito ‘gotico rurale ’: si tratta di Eraldo Baldini, romagnolo di Russi, autore unico per la sua originalità. Leggendo le sue opere si ha la sensazione di tornare indietro nel tempo, nel calore di quelle stalle e ascoltare, tra fascinazione e terrore, storie che risvegliano, nel nostro dna, la memoria di un passato ancestrale ma, tutto sommato, non troppo distante nel tempo.
© Danila Faenza