Sono, da sempre, un’amante della musica italiana (nessuno è perfetto). E, su questa base, da tempo mi chiedo come mai le canzoni degli anni ’60-’70 siano ancora degli evergreen, pezzi che tutti conoscono, spesso riferimenti per i giovani, le scelte di tanti debuttanti che si presentano ai talent-show musicali.
Sicuramente, di fondo, ci sono scelte industriali molto mutate nel tempo, ma questo non basta a spiegare il perché ci ricordiamo di Sapore di sale e non del brano che ha vinto l’ultimo Sanremo (a proposito, qual era?). Come Marzullo (‘si faccia una domanda e si dia una risposta’) credo di aver individuato, se non LA risposta, perlomeno DELLE risposte.
L’industria discografica, il primo elemento che ho citato, è sicuramente uno degli elementi; ma poi ne esistono altri, ovviamente:
1) La fonte, ovvero la qualità: e intendo la qualità umana, artistica, che riesce a superare le barriere del tempo e delle mode; senza voler portar sfiga a nessuno, chi mai si ricorderà, tra dieci anni, di quel pezzo del tal rapper, di quella canzone di quel gruppo che ha vinto quel talent o che ha avuto successo nell’estate del 2000? Citando Morandi (Gianni) ‘Uno su mille ce la fa’;
2) Il ricevente: oltre alla qualità dell’artista, è cambiata anche la qualità del pubblico. Certo ci sono i fans club di questo o quell’ artista, ma spesso sono paragonabili a piccole isole di cultori o spazi confinanti con la necessità del ricovero coatto.
La realtà, a mio parere, è che tutto (musica compresa) è diventato rumore di fondo in una dimensione consumistica che brucia storie di vita, amori, amicizie, esperienze, conoscenze, studi, competenze. Si tende ad archiviare tutto, quando non a cestinarlo. In più, non sapendo come sostituire le ideologie, si abdica alle idee.
Non a caso, nel titolo del mio blog, parlo di memoria: essere senza memoria significa essere senza radici, senza appigli, senza storia. Purtroppo l’abuso dei social network, che rappresentano per molti una sorta di anestesia per evadere da se stessi, è una delle cause, ma anche un alibi per chi vuole vivere ‘cogliendo l’attimo soporifero’ e dimenticando la vita.
Vedo gente della mia età (quasi una citazione gucciniana) contemplare lo smartphone ignorando le persone presenti; mi dispiace per loro, ma ad ‘una certa età ’ queste sono scelte più o meno consapevoli. Ciò che trovo preoccupante è che, per molti giovani, questo sia l'unico modo di relazionarsi ad una realtà sempre meno umanamente ricca.
Gli artisti, se sono tali, sono spesso anche veggenti, nel senso che sanno fiutare l’aria che tira e anticipare i tempi. Arthur Rimbaud, non a caso un genio, scrisse:
“Adesso, mi intestardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: voi non ci capireste niente, ed io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Perdonate il gioco di parole”
Roberto Roversi (Bologna, 1923-2012) era un poeta vero (non un architetto di versi) e, oltre a tante liriche e testi per Lucio Dalla, scrisse i versi, davvero profetici trattandosi del 1984, di una delle più belle canzoni italiane, Chiedi chi erano i Beatles, musicata da Gaetano Curreri, il cantante (ora si dice frontman) degli Stadio. Viviamo in un’epoca in cui, citando Paolo Conte, ‘la memoria è labile’.
Grazie Gaetano e Roberto, avete scritto un capolavoro musicale e di veggenza.
© Danila Faenza
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