martedì 30 settembre 2014

La Rete per pescare i Polli


Su Mtv va in onda una trasmissione che prende il nome da un film: si chiama Catfish, che in inglese sta a significare, più o meno, una persona che finge di essere un’altra, specialmente nel web.
Ho sempre pensato che Facebook fosse un mezzo molto utile per persone che vivono in zone isolate, tanto per intenderci in Alaska o in certe aree del Canada o degli Stati Uniti, dove il vicino vive a 30 km. di distanza; credevo che, in questi, disperati casi,fosse un’opportunità per le persone senza possibilità di socializzazione, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo perché non avevo fatto i conti con la stupidità  e con la dilagante asocialità umana: questi due elementi fanno sì che del tuo vicino di casa o dell’amico di sempre non te ne freghi più di tanto, che cammini per strada col braccio destro quasi ingessato a fissare lo smart-phone, che non te ne freghi nulla di quel che ti succede accanto ma che appaia (e sottolineo, appaia) MOLTO coinvolto dai post di persone che neanche conosci.
Si sa che l’Italia, come altri Paesi, è fortemente condizionata dagli USA, specialmente nelle mode più cretine e, riguardo a Facebook e al web in generale, così è.
Fatto sta che il succitato programma mostra come dei disperati (o cretini, mettetela come vi pare) si ‘innamorino’ di persone conosciute tramite i social-network e, tutto questo, senza averle mai viste di persona e nemmeno ‘conosciute’ su Skype o su altri supporti che permettano di vederle, se così si può dire, ‘dal vivo’.
Sono relazioni che spesso durano anni, con promesse di matrimonio (…) , con progetti di trasferimento, con giuramenti di eterno amore.
Dopo chat infinite e telefonate chilometriche, ovviamente uno dei due (cioè il pollo o la gallina) chiedono giustamente un incontro e, voilà, ogni volta che l’appuntamento è stabilito, l’altro/a è assente per ragioni quasi sempre uguali: disgrazie di famiglia (è morto improvvisamente il padre, la madre ha avuto un ictus, la persona stessa è stata arrestata per qualche motivo, la nonna ha avuto un episodio di emorroidi emorragiche, etc.).
 La demenziale situazione va avanti per anni e, molti, si rivolgono agli autori del programma  Nev Schulman (che ha vissuto un’esperienza simile) e Max Joseph, il regista dello show.
I due fanno indagini in Internet per scoprire, il più delle volte, che l’agognato amore si finge uomo ed invece è donna o viceversa, che si presenta su Facebook con foto ‘rubate’ che lo mostrano come un figo palestrato o una gran gnocca e invece è un bidone o una balena con 60 chili di sovrappeso.
Ovviamente i ‘polli’ rimangono di merda, avendo proiettato tutti i loro desideri su una foto che ritraeva un’altra persona, ma le domande sono: possibile che ci si possa innamorare di una foto? Possibile che si creda per anni a scuse assurde per evitare un incontro? Possibile che i meccanismi ‘tipici’ dell’amore – come lo sguardo, la postura, l’odore- siano completamente rimossi in nome di una ‘figurina’ degna della collezione Panini?
Beh, sono contenta di essere italiana, sono contenta di connettermi poco a Facebook, sono contenta di essere una che si guarda intorno e presta più attenzione a chi passa per la strada piuttosto che a quelli che mi chiedono ‘l’amicizia’ (…).

© Danila Faenza

mercoledì 24 settembre 2014

Il jukeboxe del passato: Gino Paoli, Vivere ancora

Come abbiamo già detto per celebrare gli 80 anni di Ornella Vanoni ( http://danilafaenza.blogspot.it/2014/09/il-jukebox-del-passato-ornella-vanoni.html),  i grandi protagonisti della musica (anche italiana) sono facilmente riconoscibili nei loro grandi successi, intesi come pezzi che hanno fatto la storia del Paese e della hit-parade.
Ma non sempre le canzoni, anche se stupende, salgono ai primi posti delle classifiche. Così come questa ‘chicca’ di Gino Paoli, molto meno conosciuta di Sapore di sale o de Il cielo in una stanza., ma sicuramente non meno preziosa, anzi…
Vivere ancora, pubblicata nel 1964, era il famigerato lato B del 45 giri Lei sta con te, spesso più bello del lato A (quando il lato B ancora non aveva lo stupido significato che ha ora); erano anni d’oro per il Gino Paoli artista, ma anni complicati per il Gino Paoli uomo: sebbene sposato, aveva una relazione con Stefania Sandrelli, donna di cui –pare- fosse innamorato anche il suo amico Luigi Tenco. Come se non bastasse, sia la moglie che la Sandrelli –allora minorenne- erano incinte.
Che siano state queste le cause scatenanti o altre, non lo si può sapere, ma evidentemente Paoli si sentì incapace, ad un certo punto, di gestire la sua vita e, l’11 luglio del 1963,  si sparò al cuore, mancando però l’obiettivo finale: il proiettile si fermò nel pericardio e i medici decisero che era troppo pericoloso rimuoverlo. E ancora è lì, incapsulato, quasi a testimoniare che si muore quando si può, come ebbe a dichiarare lo stesso Paoli: “ Ogni suicidio è diverso, e privato. È l'unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l'amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l'unico, arrogante modo dato all'uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero.”
Già, evidentemente Paoli era destinato ad amare ancora, ad avere altri figli, a deliziarci ancora con la sua arte. Grazie Gino, per aver mancato il bersaglio. E buon compleanno.

© Danila Faenza 

Il jukeboxe del passato: Ornella Vanoni, Fammi andare via

In questo settembre due grandi della musica italiana hanno festeggiato gli ottant’anni, Ornella Vanoni e Gino Paoli, due splendidi ottantenni curiosamente nati a distanza di un solo giorno l’una dall’altro (lei nata a Milano il 22 settembre, lui nato a Monfalcone il 23, anno 1934).
Oltre agli astri, ci pensò il destino a riunirli, e lo fece  negli uffici di una casa discografica, la storica Ricordi, dove il gossip inizialmente li divise, poiché si sussurrava che lui fosse gay e lei lesbica: le voci erano così esatte che lui, ancora oggi, è ricordato come un   tombeur de femmes e, di lei, si dicono tante cose che, comunque, non smentiscono la sua fama di seduttrice.
A parte le inutili pruderie, una cosa è certa: che entrambi hanno scritto un lungo tratto della storia della canzone italiana e, di questa, sono stati due tra i più grandi interpreti e protagonisti.
Sarebbe dunque facile propinarvi un ‘classico’ di entrambi, in questo caso L’appuntamento o Domani è un altro giorno o, meglio ancora, di una canzone di cui entrambi sono stati interpreti, magari in una serie di concerti che hanno tenuto insieme.
Per quel che riguarda questo blog, il desiderio è invece quello di proporre dei pezzi sublimi e meno conosciuti de La gatta o di Che cosa c’è ed il motivo è semplice: per molti autori, interpreti, cantanti, esistono degli hit, dei grandi successi che li rendono immediatamente riconoscibili, ma in carriere così lunghe esistono anche pezzi dimenticati o poco conosciuti che sono altrettanto belli, se non delle vere e proprie ‘perle’. Ecco, questa canzone tratta dall’album  A un certo punto, del 1974, è una canzone stupenda che rende merito alla personalità dell’interprete. Purtroppo, per qualche motivo a me ignoto, non è possibile postare il video (rarissimo), ma lo trovate qua: https://www.youtube.com/watch?v=y-RrPsA5Jxc
Buon ascolto.

© Danila Faenza 

domenica 21 settembre 2014

La follia del web

Conosco persone che, per scelta, non hanno il televisore. Si tratta di gente che vive la televisione come un demone o che, con compiaciuto snobismo, affermano di avere ‘ cose più interessanti da fare’. Niente da obiettare, perché spesso la tv propone un vuoto pericoloso o messaggi del tutto deleteri, come per esempio il fatto che basti apparire giovani, belli e del tutto decerebrati per avere denaro e successo.
Tuttavia la tv, specie quella di adesso, che offre una notevole quantità di canali digitali, propone anche trasmissioni molto interessanti, bei film, fiction gradevoli, documentari che potrebbero sostituire dieci lezioni di storia o di biologia e, al cospetto di queste persone, è imbarazzante constatare che, per esempio, non sappiano chi siano, per esempio, Lilli Gruber piuttosto che Roberto Benigni  o Loredana Berté: li tratti un po’ come si trattano i ritardati o i matti, con quella condiscendenza benevola e un po’ perplessa.
Il punto è che nessun mezzo è, di per sé, totalmente negativo o positivo, ma dipende da come lo si usa, affermazione banalissima ma vera. Il nostro cervello è un organo molto, troppo adattabile, per cui la capacità critica, se non sviluppata, tende a ridursi a zero e a farci comportare come automi non troppo intelligenti.
Qualche mese fa è apparsa la notizia di un’anziana che si è suicidata a causa della disumanizzazione dei rapporti dovuta al web e, in un certo senso, la capisco: una persona novantenne, abituata ad un mondo che esprime la condivisione con la presenza fisica, con la telefonata o con la compagnia, deve essersi sentita tagliata fuori da un mondo delirante, magari da dei figli sessantenni che, invece di parlare con lei, chattavano su Facebook o fissavano rapiti lo smartphone.
Anche Internet ,come la tv, è usato male, specie dai giovani ma, purtroppo, non solo: un mezzo che ha quasi infinite potenzialità viene usato solo per due-tre funzioni- tra le più deleterie- come leggere per ore post del tutto inutili che punteggiano la vita quotidiana delle persone. È una sorta di rito ipnotico, un rumore di sottofondo che impedisce di sentire ciò che si prova, un’anestesia emotiva che riduce il cervello a una pappa insipida, incapace di andare al di là del vuoto.
Se dovessi descrivere questo uso di Internet lo definirei come un atto masturbatorio con preservativo, cioè un surrogato di rapporti reali che potrebbero- oddio, che paura- provocare emozioni, coinvolgimento, dolore, gioia, conversazione, conflitto, condivisione reale.
Certo è più comodo non staccare il culo dalla sedia e avere una parvenza di comunicazione, di compagnia; sicuramente le persone in carne ed ossa sono più difficili da gestire, più problematiche; certo è più facile cliccare ‘mi piace’ – magari su un post che recita ‘ho l’ulcera duodenale’- che non telefonare e chiedere ‘come stai?’.
Davanti al babau della persona vera si preferisce allora commentare i post dello sconosciuto o, magari, dell’amico che non vedi da anni. Se tutto questo ha un effetto di istupidimento in persone adulte, mi chiedo con inquietudine che effetto avrà sulle vite di quelle generazioni nate col web.  Mi immagino scenari drammatici: robot umani paurosi dell’incontro, persone incapaci di relazionarsi con l’altro reale e, soprattutto, un’umanità molto più stupida, incredibilmente ignorante e priva di emozioni. Il Grande Fratello di Orwell, al confronto, è un ipnotista da circo.
Ho sentito che in Italia esistono già due cliniche specializzate nella cura dei ‘web sex addict’, cioè di quelle persone che praticano compulsivamente il sesso online e non sono in grado di praticarlo nella realtà.
Attendo il momento in cui si potranno far figli spedendoli come allegato.


© Danila Faenza

mercoledì 17 settembre 2014

Scoop! Le verità sconvolgenti sul divorzio Banderas-Griffith

Durante quest’estate un altro matrimonio vip che sembrava solidissimo è terminato, quello tra Antonio Banderas e Melanie Griffith.
La  rottura era nell’aria già da un po’, ma è stata lei a chiedere il divorzio per “differenze inconciliabili”. Non c’è da stupirsi: la figlia di  Tippi Hedren, protagonista de Gli uccelli e Marnie del maestro Alfred Hitchcock, era da tempo insofferente ai cambiamenti del marito; aveva sposato un attore diventato icona gay dopo i ruoli interpretati per Almodovar, poi sex symbol latino che faceva sognare le donne e, nel giro di poco tempo, si trovava sposata ad un fornaio ossessionato dal suo lavoro.
Tutto questo era da tempo motivo di diverbio nella coppia: il glamour era scomparso davanti ad un Antonio che ballava il liscio nell’aia accanto a contadine attempate e in sovrappeso, ad un uomo che invece che sussurrare ai cavalli parlava con le galline, che invece di presentarsi ai produttori con progetti cinematografici faceva la predica ai mugnai su come macinare il grano. La cosa peggiore per la Griffith, però, era che il biscotto di Antonio un tempo era ‘inzupposo’ ma ora, ahimè, non si inzuppava più nulla se non le Macine e le Campagnole.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una festa hollywoodiana cui la coppia ha partecipato, una goccia composta da molteplici, imbarazzanti episodi: appena giunto al party, Banderas ha preteso di parlare col responsabile del catering per rimproverarlo della qualità del pane degli stuzzichini e, in seguito, si è chiuso in cucina a preparare ‘il suo pane’; tornato in sala, ha brancato Quentin Tarantino per proporgli la regia di una sua sceneggiatura, la vita felice di una famiglia italiana che vive in un mulino. Tarantino gli ha vomitato addosso, ha spaccato un tot di piatti ed è stato arrestato. Poi è stata la volta di un esterrefatto Bruce Willis, a cui il bell’Antonio ha attaccato una pezza di due ore sullo spessore delle fette biscottate; in seguito, sempre più infoiato, ha preso a braccetto Woody Allen cercando di convincerlo a suonare il Flauto al posto del clarinetto; non pago di questo, Banderas avrebbe avvicinato Sharon Stone parlandole a lungo della bontà, della bellezza, delle qualità della Camilla: la diva, pensando che il collega la stesse paragonando alla moglie del principe Carlo, gli ha buttato in faccia il  Moët et Chandon e, al grido di ‘asshole!’, ha abbandonato la festa.
A quel punto, nonostante la vergogna, la Griffith, per rimediare al danno, ha baciato il marito e gli ha sussurrato ‘Andiamo a casa e diamoci qualche abbraccio’, al che lui –pensando ai frollini- avrebbe ceduto alla lusinga. Una volta giunti nella faraonica villa, Melanie ha propinato al marito una riga di coca spacciandola per farina, quindi lo ha invitato a spogliarsi in piscina, mentre lei eseguiva un sensuale spogliarello sulle note di Romagna mia.
Banderas sembrava cotto a puntino, con lo sguardo perso e lubrico ma, proprio sul più bello, ha guardato la moglie con espressione intensa e ha detto: “No puedo, mi amor: estoy muy preoccupato per Rosita: come gallina es già anzianotta e non trova il galletto giusto para ella…” Dopo queste parole, dicono i vicini, è scoppiato l’inferno: grida, rumori di padelle sbattute, vetri infranti, biscotti volanti. La mattina dopo, tutti gli effetti personali di Banderas sono stati caricati su un camion della Barilla. Ora il tutto è in mano agli avvocati che, si sa, quando si tratta di divorzi miliardari, hanno le mani in pasta…


© Danila Faenza

sabato 13 settembre 2014

Giuni Russo, una voce prigioniera e un'anima libera

Dieci anni fa moriva, a soli 53 anni, Giuni Russo, una delle più grandi cantanti italiane e, da certi punti di vista, l’unica. Voce insuperabile, di stampo lirico, conobbe un grande successo con alcuni brani che lei stessa definiva ‘canzonette’, pur essendo grata a quegli hit.
Ogni estate, nonostante il tempo che passa, sento Un’ estate al mare e mi viene il mal di fegato pensando che, purtroppo, per gran parte del pubblico Giuni Russo era quella cantava questo tormentone. Invece era molto di più, anche se una discografia miope e anche un po’ masochista le ha imprigionato la voce in nome di un rientro economico facile ed immediato: è veramente stupido cercare di manipolare un artista in nome del dio denaro e forzarlo a vivere una vita che non è sua. Anche dal punto di vista economico, il pubblico capisce, intuisce l’autentico talento e, quando il sedicente artista si dimostra non tale, lo abbandona dopo l’iniziale entusiasmo: se ripercorrete mentalmente gli ultimi anni di ‘talent show’ e di alcuni hit rimasti l’unico successo dell’interprete, perderete il conto dei tanti ‘fuochi fatui’ che ci hanno propinato.
Giuni Russo, invece, in quest’ intervista, ci insegna qualcosa di importantissimo: che quando una vocazione è autentica e sincera va seguita fino in fondo nonostante le difficoltà, i boicottaggi, le momentanee delusioni. Perché quel tipo di predisposizione, di talento, sono nel nostro Dna,  nel nostro destino, nella nostra anima: chiamate questa ‘chiamata’ come volete, ma fa parte di noi. Che si tratti di talento artistico, di passione per una professione o un mestiere o anche, solo, della necessità di una vita tranquilla, movimentata, spericolata o banale, quello è. E, senza la tensione verso quella meta, la vita perde di significato. I riconoscimenti, anche se spesso postumi, testimoniano che Giuni Russo era riuscita, nonostante gli ostacoli, a trovare il senso della sua vita, il che non è poco.


© Danila Faenza

giovedì 11 settembre 2014

Il ricordo dei morti, la memoria dei vivi






Da quando, tredici anni fa, si verificò la tragedia dell’attentato alle Torri Gemelle, sento e leggo (ahimè, purtroppo, anche su testi scolastici) che, da allora, ‘la nostra vita è cambiata ’. Pare che questo sia  un assioma che, se messo in discussione, ti pone tra i probabili seguaci dei terroristi . Ormai il ‘Grande Fratello’ (non l’idiozia televisiva, ma quello previsto da George Orwell nel suo romanzo 1984) ha raggiunto il potere, anche senza troppi controlli: il conformismo ormai è una necessità, mentre il pensiero critico è una sorta di deformazione, di handicap, di provocazione.
Nessuno nega l’impatto traumatico che l’11 settembre ha provocato nelle coscienze, né la follia che lo ha ideato; il punto è che, ormai privi di un’identità (individuale, collettiva, nazionale) non abbiamo più memoria né spirito critico, qualità che servirebbero ad affermare che quel giorno ha probabilmente mutato la vita degli americani, ma non la nostra. Come direbbe Vasco, ‘non siamo mica gli americani’
Infatti, se gli Usa hanno visto una sola guerra sul loro territorio (quella civile, di Secessione, svoltasi  tra Nordisti e Sudisti tra il 1861 e il 1865), purtroppo l’Europa è stata teatro di numerose guerre, tra cui le più drammatiche, le Due Guerre Mondiali; in seguito, tra gli anni ’70 e ’80, molti Paesi europei hanno vissuto il dramma del terrorismo. E, per quel che ci riguarda, non possiamo dimenticare che l’ultimo, folle atto terroristico è avvenuto nel 2002 con l’omicidio di Marco Biagi.
Noi italiani , quindi, conosciamo bene la paura, l’insicurezza, il dolore del terrorismo, delle stragi, delle morti tragiche quanto inutili di tante persone che avevano la sola ‘colpa’ di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Poco più di un mese fa è stato celebrato il 34° anniversario della Strage alla stazione di Bologna, momento in cui, oltre ai morti, si ricordano i troppi dubbi, i troppi segreti, le troppe deviazioni, la troppa ideologia, i troppi misteri intorno alla Verità. E, purtroppo, ancora, troppa poca memoria: aldilà dell’annuale commemorazione, in cui tutti si sentono in dovere di ricordare, l’amnesia collettiva invade i restanti 364 giorni. e, non a caso, ne scrivo solo oggi.
Certo non si può ricordare tutto in ogni giorno della propria vita, ma mi ha sempre stupito la sostanziale rimozione dei superstiti della strage. Ho conosciuto persone la cui vita è davvero cambiata, in quel giorno: persone che erano nei paraggi della stazione e che sono state ossessionate da ricordi atroci per lungo tempo, persone che –da allora- non sono più salite su un mezzo pubblico, persone che sono state traumatizzate irrimediabilmente da quell’ evento.
Sappiamo che i morti tacciono, mentre i vivi possono parlare e ricordare. E mi sono sempre chiesta, in questi decenni, come quella tragedia abbia segnato la vita di coloro che, il 2 agosto del 1980, sono scampati per un soffio alla morte. E perché mai nessun giornalista, regista, documentarista abbia pensato di raccogliere i ricordi e le testimonianze dei superstiti di tutte le disumane stragi perpetrate in Italia.
Ora la mia curiosità (umana e non certo morbosa) ha avuto una risposta, almeno parziale, attraverso il bel docufilm Un solo errore, di Matteo Pasi, finalista al Premio Ilaria Alpi 2013 nella sezione “migliore inchiesta televisiva italiana”. Lo potete vedere qui:  http://www.arcoiris.tv/scheda/it/15916/
Guardatelo, ne vale la pena: a parte le testimonianze di chi, in quel giorno, ha avuto la propria vita lacerata per sempre, c’è una sequenza che potrebbe cambiare le vite di molti, portandoli (o riportandoli) ad una ‘giusta’ rabbia, alla sete di verità e di lotta, la sequenza in cui Licio Gelli afferma che, secondo lui, il disastro è avvenuto a causa di un mozzicone di sigaretta che, a causa del caldo, ha creato una sorta di autocombustione. Già, si sa che fumare fa male…


© Danila Faenza