Gabriele D’Annunzio mi è sempre stato indigesto e non per la fama di Vate del Fascismo: per fortuna (o purtroppo) sono sempre stata molto indipendente nei miei giudizi e spesso controcorrente , tanto che, fin da giovane, detestavo D’Annunzio ma amavo (e tuttora amo) Nietzsche, ritenuto per molto tempo un teorico del Nazismo (giusto perché il libero pensiero, per molti, non ha diritto d’esistere e lo si deve incasellare in qualche misera nicchia ideologica).
I motivi della mia avversione nei confronti di D’Annunzio non sono quindi ideologici, ma semmai ‘epidermici’ ed estetici.
Riguardo al primo punto provo una certa antipatia ed istintiva repulsione verso coloro che esaltano se stessi e cercano di fare della loro persona un mito: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di casi patologici che, nei casi più fortunati, sono eccellenti artisti ma esseri umani miserabili; nella peggiore delle ipotesi, pessimi aspiranti artisti (politici, artigiani, industriali, insegnanti e qualsiasi altro mestiere facciano) che, umanamente, sono sotto il minimo sindacale.
Dal punto di vista poetico, invece, ho sempre trovato l’arte di D’Annunzio perfetta dal punto di vista stilistico, metrico e musicale, ma assolutamente priva di qualsiasi spessore emotivo e arida dal punto di vista dei contenuti.
Date queste premesse, potrete capire con quale stato d’animo mi sono avvicinata alla lettura de L’innocente (1892) e, forse,vi chiederete anche il perché l’abbia letto. La risposta è semplice: ricordavo, con un certo turbamento, il film di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo. Si tratta dell’ultima opera del grande regista milanese, morto due mesi prima della presentazione della pellicola al Festival di Cannes del 1976.
Il disagio provato nel vedere il film si spiega con la trama dell’opera, purtroppo ancora attualissima sebbene siano trascorsi ben 122 anni dalla sua creazione.
Ora ignorate l’italiano ottocentesco, la prosa ampollosa, le ridondanze e gli estetismi e concentratevi solo sulla vicenda: il giovane rampollo Tullio Hermil, dopo l’infuocata passione che lo ha unito alla moglie Giuliana, vede in lei solo una sorella. Dopo sette anni dal matrimonio e due figlie, ha stabilito un patto di ‘sincerità’ con la moglie, mettendola a parte delle sue passioni extra-coniugali (e, quindi, delle sue lunghe assenze, dei suoi viaggi, dei suoi estraniamenti dalla vita familiare). Il protagonista ‘giustifica’ il suo comportamento con una superiorità morale che lo distingue dagli altri uomini (sì, proprio…), con un’indole ‘particolare’ dovuta a non ben precisati ‘complessi’ (tipo i Rolling Stones o gli Abba).
La moglie, sempre affetta da vaghe malattie (Freud non era esattamente un cretino), accetta passivamente l’esuberante vita sessuale del marito, mostrandosi sempre mite, complice, compiacente e, soprattutto, madre (del marito).
Dopo l’ultima devastante passione, il protagonista cade in una sorta di deliquio psicofisico che, unito al sempre più evidente distacco della moglie (strano, eh?), lo porta a considerare l’idea di un ritorno ‘all’ovile’ caratterizzato dalla passione dell’inizio, dall’ansia della conquista e dal risorgere dell’Amore.
Purtroppo, a corrompere questa fantasia di estasiante armonia coniugale interviene una gravidanza, inaspettata ed ovviamente adulterina; ed ecco che il Tullio cade nella gelosia, nell’ossessione erotica verso la moglie e nella disperazione.
Il ‘super-uomo’ indifferente al giudizio altrui ed alle convenzioni, comprende il tradimento della moglie ma… comincia a tormentarsi sull’identità dell’Altro, sugli atti compiuti dalla moglie e, soprattutto, sul fatto che questa abbia accolto ‘le escrezioni di un altro uomo’. Il tradimento si potrebbe superare, ma non la prova tangibile di esso, l’Intruso, il Bastardo.
Con questo stato d’animo il protagonista comincia prima a sperare in un aborto spontaneo, poi a progettare un infanticidio, complice l’acquiescente moglie-madre-serva.
Bene, se volete conoscere il finale leggetevi il romanzo e/o guardatevi il film, ma la morale è che dopo 122 anni (122, non 22) la psicologia maschile non sembra essere cambiata molto, a parte qualche eccezione. La lista delle donne uccise per motivi simili (ma, in generale, per ragioni molto più banali) si allunga di giorno in giorno e ci si chiede che cosa impedisca agli uomini (intesi come maschi) di passare dall’egocentrismo infantile che tutto loro consente a delle regole di convivenza ‘affettiva’ che, in definitiva, rappresentano l’accettazione dell’altra/o .
In questo caso D’Annunzio riesce ad esprimere profondamente le emozioni e le reazioni maschili davanti ad una donna che, esasperata dall’assenza del marito, ha ‘l’ardire’ di tradirlo. E, come è noto, il tradimento femminile, in fieri, può portare anche a portarsi in casa un Intruso, prova vivente che la Donna è stata ALTROVE. Quell’altrove, che è legittimo per l’uomo, diventa intollerabile se a visitarlo è la donna.
© Danila Faenza