giovedì 24 luglio 2014

Un libro un film: L'innocente

Gabriele D’Annunzio mi è sempre stato indigesto e non per la fama di Vate del Fascismo: per fortuna (o purtroppo) sono sempre stata molto indipendente nei miei giudizi e spesso controcorrente , tanto che, fin da giovane, detestavo D’Annunzio ma amavo (e tuttora amo) Nietzsche, ritenuto per molto tempo un teorico del Nazismo (giusto perché il libero pensiero, per molti, non ha diritto d’esistere e lo si deve incasellare in qualche misera nicchia ideologica).
I motivi della mia avversione nei confronti di D’Annunzio non sono quindi ideologici, ma semmai ‘epidermici’ ed estetici.
Riguardo al primo punto provo una certa antipatia ed istintiva repulsione verso coloro che esaltano se stessi e cercano di fare della  loro persona un mito: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di casi patologici che, nei casi più fortunati, sono eccellenti artisti ma esseri umani miserabili; nella peggiore delle ipotesi,  pessimi aspiranti artisti (politici, artigiani, industriali, insegnanti e qualsiasi altro mestiere facciano) che, umanamente, sono sotto il minimo sindacale.
Dal punto di vista poetico, invece, ho sempre trovato l’arte di D’Annunzio perfetta dal punto di vista stilistico, metrico e musicale, ma assolutamente priva di qualsiasi spessore emotivo e arida dal punto di vista dei contenuti.
Date queste premesse, potrete capire con quale stato d’animo mi sono avvicinata alla lettura de L’innocente (1892) e, forse,vi chiederete anche il perché l’abbia letto. La risposta è semplice: ricordavo, con un certo turbamento, il film di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo. Si tratta dell’ultima opera del grande regista milanese, morto due mesi prima della presentazione della pellicola al Festival di Cannes del 1976.
Il disagio provato nel vedere il film si spiega con la trama dell’opera, purtroppo ancora attualissima sebbene siano trascorsi ben 122 anni dalla sua creazione.
Ora ignorate l’italiano ottocentesco, la prosa ampollosa, le ridondanze e gli estetismi e concentratevi solo sulla vicenda: il giovane rampollo Tullio Hermil, dopo l’infuocata passione che lo ha unito alla moglie Giuliana, vede in lei solo una sorella. Dopo sette anni dal matrimonio e due figlie, ha stabilito un patto di ‘sincerità’ con la moglie, mettendola a parte delle sue passioni extra-coniugali (e, quindi, delle sue lunghe assenze, dei suoi viaggi, dei suoi estraniamenti dalla vita familiare). Il protagonista ‘giustifica’ il suo comportamento con una superiorità morale che lo distingue dagli altri uomini (sì, proprio…), con un’indole ‘particolare’ dovuta a non ben precisati ‘complessi’ (tipo i Rolling Stones o gli Abba). 
La moglie, sempre affetta da vaghe malattie  (Freud non era esattamente un cretino), accetta passivamente l’esuberante vita sessuale del marito, mostrandosi sempre mite, complice, compiacente e, soprattutto, madre (del marito).
Dopo l’ultima devastante passione, il protagonista cade in una sorta di deliquio psicofisico che, unito al sempre più evidente distacco della moglie (strano, eh?), lo porta a considerare l’idea di un ritorno ‘all’ovile’ caratterizzato dalla passione dell’inizio, dall’ansia della conquista e dal risorgere dell’Amore.
Purtroppo, a corrompere questa fantasia di estasiante armonia coniugale interviene una gravidanza, inaspettata ed ovviamente adulterina; ed ecco che il Tullio cade nella gelosia, nell’ossessione erotica verso la moglie e nella disperazione.
Il ‘super-uomo’ indifferente al giudizio altrui ed alle convenzioni, comprende il tradimento della moglie ma… comincia a tormentarsi sull’identità dell’Altro, sugli atti compiuti dalla moglie e, soprattutto, sul fatto che questa abbia accolto ‘le escrezioni di un altro uomo’. Il tradimento si potrebbe superare, ma non la prova tangibile di esso, l’Intruso, il Bastardo.
Con questo stato d’animo il protagonista comincia prima a sperare in un aborto spontaneo, poi a progettare un infanticidio, complice l’acquiescente moglie-madre-serva.
Bene, se volete conoscere il finale leggetevi il romanzo e/o guardatevi il film, ma la morale è che dopo 122 anni (122, non 22) la psicologia maschile non sembra essere cambiata molto, a parte qualche eccezione. La lista delle donne uccise per motivi simili (ma, in generale, per ragioni molto più banali) si allunga di giorno in giorno e ci si chiede che cosa impedisca agli uomini (intesi come maschi) di passare dall’egocentrismo infantile che tutto loro consente a delle regole di convivenza ‘affettiva’ che, in definitiva, rappresentano l’accettazione dell’altra/o . 
In questo caso D’Annunzio riesce ad esprimere profondamente le emozioni e le reazioni maschili davanti ad una donna che, esasperata dall’assenza del marito, ha ‘l’ardire’ di tradirlo. E, come è noto, il tradimento femminile, in fieri, può portare anche a portarsi in casa un Intruso, prova vivente che la Donna è stata ALTROVE. Quell’altrove, che è legittimo per l’uomo, diventa intollerabile se a visitarlo è la donna.

© Danila Faenza

mercoledì 16 luglio 2014

Il jukeboxe del passato: Bella d'estate

Scritta dallo stesso Mango e da Lucio Dalla nel 1987, esplose dall’album Adesso, che conteneva anche il brano che l’artista lucano aveva presentato al Festival di Sanremo senza molto successo, Dal cuore in poi. Del resto le canzoni, come le persone, hanno un loro dna, e non basta promuoverle su un palcoscenico popolare per farle amare: è quello che trasmettono che colpisce il cuore, i nervi e quelle corde misteriose che la musica tocca.
Così Bella d’estate, con la sua malinconica sensualità che , non a caso, nasce da due personalità musicali così diverse ma intense, incanta il pubblico, che la premia in termini di vendite e di ascolti.
Tra i tanti tentativi di 'canzoni per l'estate', è uno dei più riusciti, a mio parere: la musicalità di Mango, la sua particolarissima voce, si uniscono ad un testo che rimanda agli effimeri amori estivi, ma non solo.
Peccato che sia rimasto l’unico esperimento tra i due, ma forse perché  “bastava arrivare fin qui, come onde di notte sulla spiaggia” . 
© Danila Faenza

sabato 12 luglio 2014

RE(VISIONI): MAGNOLIA

La parola ‘nemesi’ è la chiave per interpretare Magnolia (1999), il bellissimo film di Paul Thomas Anderson.
Secondo la mitologia greca, Nemesi distribuiva il fato in modo tale da riparare i danni fatti o le fortune immeritate; si tratta, insomma di una forza equilibratrice, in qualche modo livellante e riparativa.
Il film è corale e costituito da nove storie che in qualche modo si intrecciano: in ogni episodio, ognuno dei personaggi incontra la sua ‘ombra’, la parte negata di sé, la sua paura, il suo tabù, la sua ossessione negata, il suo amore represso, la misericordia rifiutata, il rigore ignorato.
Il destino, più ancora che il lettino dello psicoanalista, mette i protagonisti al muro, costringendoli ad affrontare ciò che, con caparbietà, superficialità ed ipocrisia, hanno sempre cercato di sfuggire.
Linda ( una sempre bellissima ed intensa Julianne Moore), è la moglie di un anziano malato terminale (Jason Robards) che ha sposato solo per i suoi soldi ma che, ora, ama: vuole rinunciare all’eredità per i sensi di colpa che ora prova; “Quiz Kid" Donnie Smith (William H. Macy, che ricordiamo come interprete di Fargo) è un ex bambino prodigio caduto in disgrazia che mette un atto una rapina per mettersi l’apparecchio ortodontico al fine di conquistare il giovane barista di un pub per gay.
Il regista è talmente abile da riuscire anche a far recitare bene perfino Tom Cruise, nel  ruolo di un ‘santone della misoginia’ e del sesso come effimero potere e fonte di rivalsa sulle odiate donne.
Magnolia ricorda, per certi aspetti, il Robert Altman di America Oggi (Short Cuts, 1993), capolavoro del compianto regista americano; uno degli elementi di somiglianza è l’intervento finale della forza incontrollabile della natura (in Altman il terremoto, in Magnolia la pioggia di rane) che, in qualche modo, fa pensare alla giustizia divina. Ma se in un caso prevaleva il pessimismo, in questo film la sensazione finale è liberatoria, come quando si è saldato un debito, riconosciuto un proprio errore, ritrovata la fiducia nella possibilità di un nuovo inizio.
Non è probabilmente una coincidenza che la pioggia di  rane sembri ispirata da una delle Piaghe d’Egitto (la seconda) descritta nell’Esodo della Bibbia (http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Es7%2C26-8%2C11&formato_rif=vp ), in cui Dio dice a Mosè di recarsi dal faraone per intimargli di lasciare andare il suo popolo (gli Ebrei) affinché possano servirlo e, in caso di rifiuto, minaccia un’invasione di rane.
Aldilà dell’interpretazione religiosa,  il messaggio sembra spronare alla liberazione dalla schiavitù del desiderio del potere materiale e dai propri schemi mentali ed incoraggiare verso l’apertura dell’anima. E se tutti i dolori e le paure dei personaggi sono connessi tra loro, realizzare un cambiamento personale forse significa anche irradiare pace su chi ci circonda, piuttosto che odio, rabbia e frustrazione. Magari funzionasse sempre così.
Per chi l’avesse perso o volesse rivederlo, in onda stasera, domenica 13 luglio, su Iris alle 21.

© Danila Faenza 

mercoledì 9 luglio 2014

Un libro, un film: Senza destino

Se chiudete gli occhi e pensate ad un campo di concentramento, come lo vedete?
Personalmente, lo vedo in bianco e nero. Sarà per i filmati e le foto d’epoca, ma lo immagino così: in bianco e nero e innevato. Invece, nonostante la ferocia distruttiva degli uomini, la natura continuava il suo percorso, mostrando tramonti rossastri, prati verdi, nuvole basse e dense di pioggia, soli accecanti, foglie morte e fiori che sbocciavano.
Questo è, in parte, il senso di Essere senza destino (Feltrinelli, 2004),  capolavoro dello scrittore ungherese Imre Kertész (1929), premio Nobel per la letteratura nel 2002. Si tratta di un romanzo autobiografico che ricorda l’esperienza dei campi di concentramento in cui fu deportato, quindicenne, nel 1944, e da dove fu liberato, nel 1945.
Riassunta in questo modo, la vicenda può assomigliare, purtroppo, a tante altre. Ma non è così: la particolarità e, diremmo anzi, l’unicità del romanzo di Kertész, sta proprio nella differenza di percezione della tragica esperienza che si può riassumere in questo brano: “Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.”
E, questo, nonostante, al suo ritorno, nessuno dei suoi correligionari credesse ai suoi racconti, perché come disse ogni buon nazista ‘se lo racconterai, nessuno ti crederà’.
Probabilmente questa visione di Kertész si spiega in parte col carattere, quel misterioso connubio tra dna, apprendimento e anima, in parte con l’inarrestabile vitalità di un adolescente che, nonostante tutto, vuole vivere.
Se il romanzo è originale, il film quasi omonimo, Senza destino (2005) , diretto da Lajos Voltai,  è stupendo e rende le sensazioni percettive del protagonista.
Visivamente straordinario, con una fotografia splendida, la pellicola rende esattamente quel che l’autore provava: il contatto con la natura che, nonostante la prigionia, continuava ad esistere, ignara delle sofferenza umane. E attraverso il passaggio delle stagioni, il giovane sembra mantenere un rapporto con la vita, con un futuro che, nonostante tutto, continua ad immaginare. Quasi che la vitalità del ragazzo, mai spenta, si alimentasse di piccolissimi particolari per aggrapparsi ad una sopravvivenza incerta. Ed allora, perfino in una situazione disumana, un barlume di felicità può accendersi davanti a un fiore che emana il suo colore nel buio della desolazione.
Proprio questo attaccamento viscerale alla vita farà sì che il protagonista riesca a sopravvivere e a non disperarsi, una volta tornato a casa,  davanti alla solitudine, all’incredulità e dal negazionismo perfino della sua stessa stirpe.
Da non perdere per chi non l’avesse visto; in onda domani sera, giovedì 10 luglio su Iris, alle 23,20.
© Danila Faenza 

lunedì 7 luglio 2014

Il jukeboxe del passato n. 1: Chiedi chi erano i Beatles

Sono, da sempre, un’amante della musica italiana (nessuno è perfetto). E, su questa base, da tempo mi chiedo come mai le canzoni degli anni ’60-’70 siano ancora degli evergreen, pezzi che tutti conoscono, spesso riferimenti per i giovani, le scelte di tanti debuttanti che si presentano ai talent-show musicali.
Sicuramente, di fondo, ci sono scelte industriali molto mutate nel tempo, ma questo non basta a spiegare il perché ci ricordiamo di Sapore di sale e non del brano che ha vinto l’ultimo Sanremo (a proposito, qual era?). Come Marzullo (‘si faccia una domanda e si dia una risposta’) credo di aver individuato, se non LA risposta, perlomeno DELLE risposte.
L’industria discografica, il primo elemento che ho citato, è sicuramente uno degli elementi; ma poi ne esistono altri, ovviamente:
1) La fonte, ovvero la qualità: e intendo la qualità umana, artistica, che riesce a superare le barriere del tempo e delle mode; senza voler portar sfiga a nessuno, chi mai si ricorderà, tra dieci anni, di quel pezzo del tal rapper, di quella canzone di quel gruppo che ha vinto quel talent o che ha avuto successo nell’estate del 2000? Citando Morandi (Gianni) ‘Uno su mille ce la fa’;
2) Il ricevente: oltre alla qualità dell’artista, è cambiata anche la qualità del pubblico. Certo ci sono i fans club di questo o quell’ artista, ma spesso sono paragonabili a piccole isole di cultori o spazi confinanti con la necessità del ricovero coatto.
La realtà, a mio parere, è che tutto (musica compresa) è diventato rumore di fondo in una dimensione consumistica che brucia  storie di vita, amori, amicizie, esperienze, conoscenze, studi, competenze. Si tende ad archiviare tutto, quando non a cestinarlo. In più, non sapendo come sostituire le ideologie, si abdica alle idee.
Non a caso, nel titolo del mio blog, parlo di memoria: essere senza memoria significa essere senza radici, senza appigli, senza storia. Purtroppo l’abuso dei social network, che rappresentano per molti una sorta di anestesia per evadere da se stessi, è una delle cause, ma anche un alibi per chi vuole vivere ‘cogliendo l’attimo soporifero’ e dimenticando la vita.
Vedo gente della mia età (quasi una citazione gucciniana) contemplare lo smartphone ignorando le persone presenti; mi dispiace per loro, ma ad ‘una certa età ’ queste sono scelte più o meno consapevoli. Ciò che trovo preoccupante è che, per molti giovani, questo sia l'unico modo di relazionarsi ad una realtà sempre meno umanamente ricca.
Gli artisti, se sono tali, sono spesso anche veggenti, nel senso che sanno fiutare l’aria che tira e anticipare i tempi. Arthur Rimbaud, non a caso un genio, scrisse:
“Adesso, mi intestardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: voi non ci capireste niente, ed io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Perdonate il gioco di parole”
Roberto Roversi (Bologna, 1923-2012) era un poeta vero (non un architetto di versi) e, oltre a tante liriche e testi per Lucio Dalla, scrisse i versi, davvero profetici trattandosi del 1984, di una delle più belle canzoni italiane, Chiedi chi erano i Beatles, musicata da Gaetano Curreri, il cantante (ora si dice frontman) degli Stadio. Viviamo in un’epoca in cui, citando Paolo Conte, ‘la memoria è labile’.
Grazie Gaetano e  Roberto, avete scritto un capolavoro musicale e di veggenza.
© Danila Faenza

venerdì 4 luglio 2014

Un libro, un film: La bestia nel cuore


Cristina Comencini è, in Italia, l’unico esempio di scrittrice-regista. Intendiamo come rappresentante dell’altra metà del cielo: l’altro autore che scrive e trae film dai suoi romanzi è Pupi Avati.
Certo, per chi sa anche scrivere in prosa, è probabilmente più facile tradurre in immagini le emozioni che voleva trasmettere ma, nello stesso tempo, appare  più difficile creare un’opera a sé stante mettendo da parte le parole per condensarle in immagini.
La bestia nel cuore (2005) della regista romana, tratto appunto dal suo romanzo omonimo, è un esempio lampante di come questa delicata operazione sia, in questo caso, perfettamente riuscita.
Il tema, per chi non avesse visto il film né letto il libro, è quello dell’abuso sessuale sui bambini da parte dei genitori. Purtroppo questo atto odioso è molto più agito all’interno delle famiglie che da parte di estranei, con l’aggravante che avviene proprio da parte della persona (il padre) che dovrebbe, in teoria, tutelare e proteggere la famiglia: questo fa sì che il trauma sia ancora più devastante, perché va ad intaccare quella fiducia che dovrebbe essere alla base dei rapporti genitori-figli. Ma, del resto, sappiamo bene che l’ormai famosa ‘famiglia del Mulino Bianco’ non esiste se non negli spot pubblicitari e che, ora più che mai, le responsabilità genitoriali vengono spesso surclassate da impulsi egocentrici se non distruttivi.
Protagonisti della storia sono due fratelli, Sabina e Daniele, interpretati, nel film, dalla sempre bravissima Giovanna Mezzogiorno (Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile nel 2005) e da  Luigi Lo Cascio.
Sabina vive una vita normale ma, dopo la riesumazione e lo spostamento delle salme dei genitori, comincia ad avvertire un disagio legato ad incubi ricorrenti. Rendendosi conto che non ricorda la sua infanzia, decide, per le feste di Natale, di andare a trovare suo fratello, che vive negli Stati Uniti. Lì si renderà conto che anche il fratello ha delle problematiche legate al suo ruolo paterno.
A raccogliere le confidenze di Sabina la sua migliore amica, Emilia (Stefania Rocca), da sempre segretamente innamorata di lei e divenuta cieca; Maria (Angela Finocchiaro, David di Donatello 2006 come migliore attrice non protagonista) dovrà prendersi cura di lei durante la vacanza di Sabina e, alla fine, ognuno dei personaggi troverà una via d’uscita  alla propria infelicità.
Ad alleggerire l’atmosfera, rispetto al romanzo, è proprio la presenza di Angela Finocchiaro, bravissima come sempre e assolutamente esilarante.
Un romanzo da leggere, un film da vedere per chi non lo ha visto, da rivedere per coloro a cui è piaciuto.

© Danila Faenza