lunedì 30 giugno 2014

Domani è un altro giorno… e francamente me ne infischio


Ieri, 30 giugno, ricorreva il 78° anniversario della pubblicazione di Via col vento di Margaret Mitchell ( Atlanta, 8 novembre 1900 – 16 agosto 1949), che vinse il Premio Pulitzer l’anno dopo (1937), contando 180.000 copie vendute in quattro settimane ed un milione in sei mesi.
Tutti – o quasi- conoscono il film del 1939 diretto da Victor Fleming, ma pochi hanno letto il romanzo, torrenziale come il film e, soprattutto, romanzo storico a tutti gli effetti. Infatti, mentre il film si concentra sulla storia della protagonista, il romanzo è uno spaccato del periodo della Guerra di Secessione degli Stati Uniti, l’unica guerra sul territorio che gli Stati Uniti abbiano mai vissuto.
Al centro di tutto, lei, Scarlett /Rossella, una donna volitiva e determinata, come tutte le donne del Sud del mondo, che pensa sempre che ‘Domani è un altro giorno ’, fregandosene anche dei sentimenti, che considera come corollario di un’esistenza pratica e mirata alla sopravvivenza.
Nella sostanza, una donna ‘all’avanguardia’ che, nel linguaggio pre-femminista e dei tempi, equivaleva a comportarsi come un uomo medio. D’istinto (o per generazione, cultura, sesso) puoi amarla o considerarla una stronza, ma difficilmente te ne dimentichi. Rossella è una di quelle che la mia generazione, citando Lucio Battisti, potrebbe definire come della categoria ‘io vorrei, non vorrei ma se vuoi….” . E lui, giustamente, a un certo punto, “se ne infischia”.
L’autrice, un fiero e tenace Scorpione, impiegò dieci anni a scrivere il romanzo. Ne valeva la pena perché, a parte il successo del film, che vinse ben 10 Oscar (tra cui il primo Oscar a una persona di colore, nella fattispecie Hattie McDaniel nel ruolo di Mami), è riuscita ad imprimere nell’immaginario collettivo di tutto il mondo un’icona femminile, quella Miss Rossella che, nonostante gli ostacoli e la sorte avversa, tra un monito di Mami (“Quello che giovanotti dire e quello che pensare essere due cose, e a me non parere che lui [Ashley] avere chiesto di sposarti!”) e un giusto ‘vaffa’ di Rhett ( “Francamente me ne infischio”), continua imperterrita a inseguire le sue mete concrete ed i suoi capricci amorosi.
A parte le caratterizzazioni, cinematografiche e non, il romanzo è un bel viaggio nella storia americana, spesso sconosciuta ai più, se si eccettuano i ricordi infantili delle battaglie tra Nordisti e Sudisti.Una lettura gradevole, sicuramente adatta per l’estate.
Margaret Mitchell, Via col vento, Mondadori
© Danila Faenza

venerdì 27 giugno 2014

L'orrore nostrano

Quando si parla di horror, il pensiero va automaticamente agli USA e, ovviamente, al re del genere, Stephen King. In  modo quasi inconscio riteniamo che si tratti di  qualcosa di importato, lontano dalla nostra cultura. Invece anche noi abbiamo una tradizione horror, tutta nostrana.
Qualche notte fa, Iris ha programmato La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, un film del 1976, la prima incursione nell’horror del regista bolognese; proprio rivedendo questa pellicola, ambientata nella campagna ferrarese, pensavo a quanto materiale ‘horror’ ci fosse nella cultura delle nostre campagne, nella vita rurale del passato, in quelle storie raccontate alla sera, quando i nostri antenati si ritrovavano nelle stalle, riscaldati dai corpi delle bestie.
La mia nonna paterna era nata a Monterenzio, un paese di  una delle valli montane dell’Emilia, vicino a Bologna; quando ero bambina ero affascinata dalle storie che mi raccontava, anche se erano spesso vicende inquietanti e paurose.
Il diavolo, ovviamente, era uno dei protagonisti più frequenti, quel diavolo che lei chiamava Luciferro (sic): erano opera sua i fuochi misteriosi che si accendevano e spegnevano da soli e che illuminavano a intermittenza il crinale delle montagne. E quando da piccola si rifiutava di mangiare e di indossare vestiti, pretendendo di scorazzare nuda, la colpa fu attribuita ad una possessione diabolica; la portarono allora al Santuario della Madonna sul Monte delle Formiche, per farla benedire da un prete.
Su quel Monte si verifica, tuttora, un evento molto strano, che spiega il nome del luogo: in settembre, intorno all’8, giorno della festa della Vergine, grossi  sciami di formiche alate volano intorno alla vetta e muoiono, cadendo sul sagrato.
E ancora storie misteriose e incredibili, che oggi chiameremmo ‘leggende metropolitane ’ e che, in fondo, nascevano probabilmente nello stesso modo, con un passaparola sussurrato che, di bocca in bocca, si arricchiva di particolari nuovi e sempre più fantasiosi, come la storia della ‘donna cavallo ’. Si narrava di un medico, molto stimato, cui nacque una figlia metà donna e metà cavallo; il padre, per nasconderla al mondo, fece costruire una villa in un luogo isolato, circondata da altissime mura. Lì la creatura viveva accudita da una governante e, quando ‘aveva le sue cose ’, nitriva e diventava aggressiva. La causa di questa deformità, si diceva, era dovuta al fatto che la madre era stata spaventata, durante la gravidanza, da un cavallo imbizzarrito; altre voci, più maliziose, alludevano ad un’altra ipotesi, tanto impraticabile quanto prosaica. A corollario della storia, la moglie del medico, dopo la sciagurata nascita, era impazzita.
In queste storie di campagna, nelle tradizioni e nelle memorie locali, ci sarebbero infiniti spunti per racconti e film horror: anche Grazia Deledda, nei suoi romanzi, inseriva richiami simili, citando le janas, piccole fate,  le panas, spiriti di donne morte di parto, ed altre creature del folclore sardo.
A differenza dell’horror anglosassone, spesso ambientato nelle città, alimentato da eventi catastrofici o da creature mostruose di origine ignota, il nostro orrore si nutre della natura e dei misteri che, talvolta, essa sembra racchiudere. Oppure nasce dalla fantasia popolare, da storie misteriose di paese, dai  riti e dalle tradizioni della nostra terra.
Un romanziere, nonché antropologo ed etnologo, ha preso spunto da queste atmosfere del passato per creare un horror tutto nostrano, che è stato definito ‘gotico rurale ’: si tratta di Eraldo Baldini, romagnolo di Russi, autore unico per la sua originalità. Leggendo le sue opere si ha la sensazione di tornare indietro nel tempo, nel calore di quelle stalle e ascoltare, tra fascinazione e terrore, storie che risvegliano, nel nostro dna, la memoria di un passato ancestrale ma, tutto sommato, non troppo distante nel tempo.
© Danila Faenza
    

domenica 22 giugno 2014

Perché perché?

Creo questo blog non per parlare delle mie emorroidi o del mio quotidiano (di cui, giustamente, non frega niente a nessuno), ma perché mi piace comunicare attraverso lo scritto (e non solo). I social network non soddisfano questa mia esigenza, quindi spero di creare uno spazio per quelli che, come me, amano pensare e riflettere. In particolare vorrei parlare di cultura in senso lato, cioè di quella cosa che è fondamento della nostra storia ma che viene, continuamente, svilita. Spero di poter stimolare qualcuno alla curiosità, all'approfondimento, al confronto e, perché, no, alla polemica. E spero che qualcuno faccia altrettanto con me; vista la maleducazione che impera in Internet non ho consentito i commenti, ma chi vuole può mandarmeli all'indirizzo email danila.faenza@gmail.com e, se sono interessanti, verranno pubblicati.